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Cosa sappiamo degli ostaggi catturati da Hamas

Author: Wired

Sarebbero oltre 200 gli ostaggi nei tunnel di Hamas a Gaza, rapiti durante il più violento attacco mai lanciato dai miliziani contro Israele, il 7 ottobre 2023. Da allora, Tel Aviv ha lanciato un’offensiva senza precedenti contro la Striscia, ma di ostaggi ne sono stati liberati solo 5. I familiari di queste persone temono per le loro vite, dato che Israele non vuole accettare alcun cessate il fuoco o dialogo, e 50 di loro sarebbero già morte sotto i bombardamenti.

Chi sono gli ostaggi?

Tra le persone catturate ce ne sarebbero almeno 10 con la cittadinanza degli Stati Uniti, 17 sembrano provenire dalla Thailandia, 8 dalla Germania, 7 dal Regno Unito e altre 7 dalla Francia. Alcune verrebbero dai Paesi Bassi, dall’Argentina, dal Messico o dalla Tanzania, per un totale di circa 40 nazionalità diverse, compresa una persona di origine palestinese ma residente in Israele.

Si tratta sia di soldati e membri delle forze di sicurezza, sia di civili, compresi 33 minori e alcune persone con disabilità, secondo il governo di Tel Aviv. Prima dell’inizio dell’invasione di terra israeliana, Hamas ha liberato solo 5 persone: una cittadina israelo-statunitense con la propria figlia e altre tre donne israeliane. Tuttavia, con l’avanzare delle operazioni di terra e l’ingresso dei soldati israeliani a Gaza City, è difficile capire quale sarà il destino degli ostaggi rimanenti e sarà ancora più difficile sapere la verità una volta che tutto sarà finito.

Il quotidiano israeliano Haaretz è riuscito a raccogliere nomi e informazioni di appena 148 persone tra quelle ancora in mano di Hamas. La lista è lunga e tra loro ci sono decine di persone catturate durante l’attacco al rave all’aperto vicino la città di Re’im, ma la gran parte è stata sorpresa nelle proprie case situate nella città di confine Nir Oz, dove Hamas è riuscito a superare le fortificazioni israeliane ed entrare nel paese.

Dove sono tenuti?

Abu Obeida, portavoce delle milizie armate di Hamas, ha dichiarato come il gruppo avrebbe nascosto “decine di ostaggi in luoghi sicuri e nei tunnel della resistenza”, si legge sul New York Times, e in base ad alcuni video diffusi dai combattenti sembra che abbiano ricevuto cure mediche. Tuttavia, in base a quanto riporta il Jerusalem Post, 50 ostaggi sarebbero morti a causa dei bombardamenti israeliani, ma la notizia non è ancora stata verificata.

Come sta reagendo Israele?

Nonostante il leader israeliano, Benjamin Netanyahu abbia dichiarato di voler “far il possibile per liberare i nostri ostaggi”, nello stesso discorso ha anche dichiarato di voler “raggiungere gli obiettivi di guerra fino alla vittoria, senza considerazioni politiche”. Affermazioni che hanno chiuso qualunque speranza di liberare gli ostaggi prima dell’invasione di terra, che nel frattempo è già cominciata.

Nell’ultimo video degli ostaggi pubblicato da Hamas, e riportato dall’Hindustan Times su You Tube, si sente una prigioniera criticare duramente Netanyahu per non aver accettato uno scambio di prigionieri, così da assicurare la loro liberazione in cambio di quella di alcuni delle migliaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, ma Netanyhau lo ha liquidato come uno strumento di propaganda psicologica.

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Cosa c’entra lo Yemen nello scontro tra Israele e Hamas

Author: Wired

Lo Yemen è un piccolo e poverissimo paese schiacciato ai piedi della penisola araba. Da otto anni è devastato da una guerra civile e da una terribile crisi umanitaria, che hanno costretto alla fame una parte consistente della popolazione. Nonostante ciò, il piccolo stato ha deciso di entrare nel conflitto tra Israele e Hamas, a sostegno dei fondamentalisti. Dietro a questa decisione, e a tirare le fila della milizia sciita che l’ha presa, c’è sempre l’Iran.

In Medio Oriente, l’Iran è l’unico paese apertamente alleato di Hamas e anche il più pericoloso. Senza il supporto iraniano Hamas non sarebbe riuscito a compiere l’attacco del 7 ottobre. E senza il supporto iraniano nessuna delle molte milizie che usa per esercitare la sua influenza nella regione sarebbero attive da molto tempo. Teheran finanzia infatti guerriglieri in Siria e Iraq, Hezbollah in Libano e, soprattutto, i ribelli Houthi in Yemen.

L’ascesa al potere degli Houthi, avvenuta tra il 2012 e il 2015, si intreccia con al Qaeda e l’Isis, con le primavere arabe e con lo scontro interno al credo musulmano tra sciiti, come l’Iran, e i sunniti, come l’Arabia Saudita. Per sintetizzare, gli Houthi, con l’appoggio dell’Iran, hanno spaccato nuovamente lo Yemen, diviso in due stati fino al 1990, rifiutando di riconoscere l’autorità di un presidente democraticamente eletto e sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita.

Come nel caso di Hamas oggi, senza l’Iran gli Houthi non avrebbero mai avuto abbastanza forza per tenere testa a una coalizione che comprende tutti i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar), con anche l’appoggio degli Stati Uniti.

Ma la posizione strategica del paese è stata sufficiente per giustificare lo scontro. Lo Yemen si trova infatti nella parte più meridionale della penisola arabica e controlla mezzo stretto di Bab el Mandeb, che collega il mar rosso con il golfo di Aden e quindi con l’oceano indiano. Pertanto è di importanza fondamentale per il commercio globale, compreso il passaggio di petrolio.

Inoltre, lo Yemen è da tempo considerato uno stato fallito, che entrambi i paesi più potenti del Golfo, Arabia Saudita e Iran, vorrebbero completamente sotto la propria influenza. In questo scontro, Riyadh fa forza sul fatto di avere un lunghissimo confine con lo Yemen e quindi avanza il diritto di dover mettere in sicurezza la zona per ragioni di sicurezza nazionale. Mentre l’Iran si può giocare unicamente la carta della stessa dottrina religiosa, essendo i due paesi separati dall’intera penisola araba e anche dal golfo Persico.

Da quando Hamas e Israele hanno intensificato il loro conflitto, gli Houthi si sono ovviamente schierati a favore di Hamas e hanno cominciato a lanciare alcuni droni e razzi verso l’Arabia Saudita, l’Egitto e, forse, anche verso Israele, ma questi ultimi sono stati intercettati da una nave da guerra statunitense nel mar Rosso prima di arrivare a destinazione.

Come riporta Reuters, gli Houthi hanno anche minacciato di coordinare un intervento militare coordinato con le altre fazioni sciite dell’Iran, in Iraq e con Hezbollah. Nonostante alcuni abbiano ipotizzato la possibile apertura di un nuovo fronte a causa degli Houthi, la loro forza militare è irrisoria se paragonata a quella israeliana e dell’Arabia Saudita, dove potrebbe effettivamente attaccare da terra.

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Cosa sappiamo dei bombardamenti degli Stati Uniti in Siria

Author: Wired

Con due bombardamenti di precisione contro depositi di munizioni e strutture offensive in Siria, gli Stati Uniti hanno dato il via alle loro prime operazioni di contenimento delle milizie sostenute dall’Iran, presenti in Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno così risposto al fuoco per la prima volta nella notte del 27 ottobre, dopo aver subìto 19 attacchi a bassa intensità verso le proprie basi in Iraq e Siria, che hanno ferito 21 soldati.

“Questi attacchi di autodifesa, di portata limitata, erano intesi esclusivamente a proteggere e difendere il personale statunitense in Iraq e in Siria. Sono separati e distinti dal conflitto in corso tra Israele e Hamas e non costituiscono un cambiamento nel nostro approccio al conflitto tra Israele e Hamas. Continuiamo a esortare tutte le entità statali e non statali a non intraprendere azioni che possano degenerare in un più ampio conflitto regionale”, ha detto il segretario della difesa statunitense Lloyd Austin.

Poche ore prima dell’attacco, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, aveva minacciato Washington dal podio delle Nazioni Unite, dicendo che nemmeno gli Stati Uniti “sarebbero stati risparmiati” se Israele non avesse interrotto immediatamente la sua offensiva contro Hamas. E tutti i gli attacchi subiti dalle truppe statunitensi in Siria e Iraq, sono stati rivendicati da gruppi controllati direttamente a Teheran o comunque legati alle Guardie rivoluzionarie dell’Iran.

In sostanza, la risposta di Washington si configura come un chiaro avvertimento a tutte le forze ostili a Israele presenti nel Golfo, in particolare l’Iran, esortandole a lasciare che Tel Aviv e Hamas chiudano il loro conflitto privatamente. In caso contrario, l’esercito degli Stati Uniti è più che pronto a rispondere. Negli ultimi giorni, la presenza statunitense nella zona è stata rinforzata con un nuovo contingente da 900 unità, nuove difese anti aeree e due portaerei piazzate nel Mediterraneo orientale.

Tuttavia, gli Stati Uniti stanno correndo in equilibrio su un filo molto sottile e la loro strategia potrebbe degenerare facilmente in uno scenario terrificante. Se da un lato Washington ha tutto l’interesse a colpire duramente l’Iran e le sue milizie in Siria, Iraq o Libano, dall’altra deve farlo evitando di infiammare la regione e scatenare un conflitto più ampio. Così, almeno per ora, è costretta a tenere al minimo l’uso della forza, limitandosi ad azioni simboliche come quella compiuta nella notte del 27 ottobre.

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Un nuovo attacco informatico contro i siti web di aeroporti italiani

Author: Wired

Nuovo attacco informatico contro gli aeroporti italiani. Stavolta a finire nel mirino sono stati i siti degli scali di Venezia e Treviso. Nel pomeriggio di giovedì 26 ottobre, tra le ore 18 e 18.50, un attacco di tipo ddos (distributed denial of service) ha colpito i portali dei due aeroporti, gestiti dalla società Save. L’incursione ha provocato il blocco preventivo anche dei siti degli scali di Verona e Chiari, sempre controllati dallo stesso gruppo. Secondo la Polizia postale, contattata da Wired, l’attacco si inserisce in una strategia di destabilizzazione da parte di gruppi di criminali informatici sulla scia della crescente tensione in Medio Oriente per il conflitto tra Israele e Hamas.

Di per sé l’attacco non ha provocato grandi disagi ed è stato risolto in meno di un’ora. Ivano Gabrielli, direttore della Polizia postale, spiega a Wired che “da giorni si sta curando un’azione preventiva contro eventuali attacchi e le strutture sono allertate per tempo, il che ha consentito di contenere in breve tempo l’attacco grazie al coordinamento tra il team di risposta agli incidenti informatici dell’ente e i centri sul territorio del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche”. Ossia quella squadra della Polizia postale che si occupa della prevenzione e repressione dei crimini informatici contro le infrastrutture critiche nazionali, come reti energetiche, reti di telecomunicazioni, servizi finanziari o di trasporto.

Save ha spiegato che l’attacco che non ha avuto conseguenze sul traffico aerportuale. Si tratta più di una mossa dimostrativa, che corrispponde alla strategia degli attacchi ddos (distributed denial of service), che mettono ko un servizio internet dopo averlo sovraccaricato di richieste. Già usata in maniera sistematica dal fronte pro-Russia per minare la fiducia dei cittadini nelle capacità di autorità e operatori di resistere all’offensiva cibernetica. E ora richiamata da gruppi di cybercriminali che sfruttano la guerra tra Israele e Hamas per attivare campagne contro bersagli specifici.

L’attacco agli scali veneti arriva a poche ore di distanza da quelli contro i siti web di tre aeroporti italiani – in Puglia, in Calabria e in Val D’Aosta – e di alcune istituzioni come l’Aeronautica militare. Dietro c’è la stessa mano, dice Gabrielli. Quella dei criminali del gruppo Mysterious Team Bangladesh, che utilizza in maniera pretestuosa il conflitto mediorientale per giustificare i suoi attacchi. “I paesi che supportano Israele saranno i nostri prossimi bersagli, di qualunque paesi si tratti. Nessuno sarà escluso”, il tweet dei cybercriminali, che ha lanciato l’operazione detta Op Italy. “Il gruppo si è schierato contro l’India e ha associato l’Italia come alleata e ora sfrutta il conflitto mediorientale per attaccare, spostando la polarizzazione della guerra dala divisione tra Occidente e Oriente a una di tipo religioso – afferma Gabrielli -. Lo stato di allerta resta alto, una situazione ormai ininterrotta dallo scoppio del conflitto in Ucraina”.

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A Gaza non c’è più acqua

Author: Wired

A questa aggressione ne sono seguite altre, poi scontri nelle città abitate sia dai palestinesi che dagli israeliani, diversi palestinesi sono rimasti uccisi o sono stati incarcerati e dopo settimane di violenze Hamas ha lanciato alcuni razzi contro Israele, tutti abbattuti dallo scudo missilistico Iron Dome. A questo inutile attacco, Israele ha risposto con bombardamenti a tappeto, che non hanno risparmiato nemmeno gli edifici in cui si trovavano le sedi di Associated Press e Al Jazeera.

Due anni dopo, di acqua a Gaza non ce n’è quasi più. Il primo ministro scozzese, Humza Yousaf, ha dichiarato alla Bbc che i suoi familiari intrappolati nella striscia stavano dividendo sei bottiglie d’acqua tra 100 persone, secondo il Guardian i residenti sono così idratati da urinare appena una volta ogni uno o due giorni e Reuters riporta che molti stanno bevendo acqua salata. Una crisi umanitaria che non tocca la Tel Aviv del leader Benjamin Netanyahu, ormai persa nel militarismo più estremo, tanto da sospendere i visti ai funzionari delle Nazioni Unite, perché il segretario generale Antonio Guterres gli ha ricordato di rispettare i diritti umani.

La desalinizzazione

Negli anni, le ripetute devastazioni causate dai bombardamenti israeliani e dagli embarghi sui materiali necessari per la ricostruzione, hanno lasciato Gaza con una rete idrica di tubature a malapena funzionante. Per questo, gran parte della popolazione si affida da tempo a circa un centinaio di impianti di desalinizzazione dell’acqua, gestiti da privati, spesso mal funzionanti e impossibili da riparare, sempre a causa dei divieti imposti da Israele sull’importazione di certi componenti all’interno della Striscia.

Ora, a seguito delle ultime settimane di bombardamenti e di chiusura totale della Striscia, anche questa rete idrica di emergenza è stata completamente distrutta. I principali impianti di desalinizzazione pubblici di Gaza sono fuori uso, così come tutte le stazioni di pompaggio della rete idrica, gli impianti di trattamento delle acque reflue sono fuori servizio e si rischia che queste vadano a contaminare le falde acquifere potabili, infine, gli impianti di desalinizzazione privati non possono funzionare senza il carburante che aziona i generatori elettrici a cui sono collegati, ma Israele ha promesso che non farà entrare una goccia di benzina a Gaza fino alla fine dello scontro.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la mancanza di acqua nella Striscia sta precipitando in una crisi umanitaria che va oltre la sete e rischia di diventare una crisi sanitaria. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari ha dichiarato nel fine settimana di aver “rilevato casi di varicella, scabbia e diarrea, attribuibili alle scarse condizioni igienico-sanitarie e al consumo di acqua proveniente da fonti non sicure. L’incidenza di queste malattie è destinata ad aumentare, a meno che le strutture idriche e igienico sanitarie non ricevano elettricità o carburante per riprendere le operazioni”.