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Sicurezza informatica, quanto conta il fattore umano?

Author: Wired

La sicurezza informatica è una questione tecnica, certo, ma ad apportare un certo livello di rischio sono anche gli esseri umani, i loro errori e le loro debolezze. In un periodo in cui il rischio cyber è presente in molti aspetti della nostra vita, sia personale che professionale, come tenere conto del fattore umano? 

Secondo un’indagine di Proofpoint, azienda di sicurezza IT, oltre il novanta per cento dei responsabili della cybersicurezza in azienda (comunemente conosciuti come CISO, Chief Information Security Officer) ritiene che gli errori dei dipendenti siano il fattore di rischio maggiore.  Secondo uno studio di IBM, con la mitigazione dei rischi legati ai comportamenti umani, il numero di incidenti informatici potrebbe essere ridotto fino a venti volte. 

I comportamenti digitali dei dipendenti

Il primo fattore di vulnerabilità digitale nelle organizzazioni riguarda i comportamenti dei dipendenti: il modo in cui lavorano, in cui proteggono i loro dati, i link e gli allegati su cui cliccano. Proofpoint ha condotto un test, nel corso del 2021, che ha evidenziato che il venti per cento dei lavoratori tende a cliccare su allegati malevoli inviati per email. Il dato varia a seconda dei dipartimenti aziendali. “Gli aggressori informatici lo sanno bene”, scrivono i ricercatori, “Scelgono obiettivi con lavori impegnativi o che lavorano in reparti dove la pressione è più alta. Sanno che queste vittime potrebbero non avere il tempo di esaminare a fondo un messaggio prima di cliccare su un link o scaricare un allegato”.

Vi è un fattore ulteriore, quello del lavoro da remoto. Lavorando da casa, le persone hanno iniziato a utilizzare maggiormente i loro dispositivi personali per ragioni professionali, e addirittura a far usare i loro device aziendali a membri della famiglia o amici. Va da sé che una persona non consapevole dei rischi cyber che maneggia un dispositivo contenente dati sensibili costituisce un fattore di vulnerabilità. I device personali sono in generale più esposti a minacce cyber: possono essere protetti da password meno forti, possono essere connessi a reti non sicure. I dipendenti da remoto, infine, sono più proni alla distrazione, alla fretta di concludere un compito e quindi meno attenti alle pratiche di sicurezza. 

I computer smarriti

I lavoratori in smart working portano il computer di lavoro sui mezzi, nei bar, nei coworking. Anche coloro che sono tornati in ufficio dopo la fine della pandemia potrebbero non essere più abituati a trasportare con loro un dispositivo di valore. I computer persi o rubati costituiscono un rischio cyber per le aziende che alcuni quantificano come addirittura superiore a quello degli attacchi ransomware. Secondo quanto riportato dal Daily Telegraph, nel Regno Unito le aziende sono state multate fino a ventisei milioni di sterline a causa dei dispositivi smarriti dai dipendenti. “I dati sensibili in essi contenuti possono avere un valore reale per gli attori delle minacce”, ha commentato Sabrina Curti, manager della compagnia di sicurezza ESET Italia, “Per cui è fondamentale che il personale se ne prenda cura e si assicuri che questi dispositivi siano dotati di un sistema di crittografia completa del disco attiva nelle fasi di spostamento da una sede all’altra. Inoltre, le multe previste dall’autorità di regolamentazione sono applicabili anche in assenza di attacchi da parte di cybercriminali”. 

I grandi eventi

Le minacce di cybersicurezza tendono ad aumentare in corrispondenza di grandi eventi come le Olimpiadi o i Mondiali di calcio. Gli hacker sfruttano l’aumento del traffico online, la distrazione e l’entusiasmo delle persone per colpire con attacchi di phishing e altre forme di cybercrime. Gli eventi di grande portata sono inoltre obiettivi interessanti per via della loro visibilità e della quantità di denaro e di dati sensibili coinvolti. Durante i Mondiali in Qatar, ad esempio, si sono moltiplicate le truffe online ai danni dei tifosi e dei viaggiatori: false pagine web che vendono biglietti, finte app ufficiali dei giochi, richieste di denaro che arrivano per email. 

Lo stress

Il rischio umano riguarda anche gli stessi esperti di cyber sicurezza. I team di security, nel 2022, sono stati sottoposti a un notevole stress lavoro-correlato. Alcuni osservatori ritengono che il burnout, l’eccessivo carico di lavoro e la mancanza di flessibilità dei lavoratori costituiscano una delle minacce più ingenti alla sicurezza delle organizzazioni. “È fondamentale che i CISO diano l’esempio e impostino i loro team su un lavoro operativo sostenibile”, ha commentato a ZDNet, Josh Yavor, responsabile della sicurezza informatica di Tessian, compagnia specializzata in email security,Assicurarsi che ci sia fiducia nei limiti stabiliti – quando si è fuori servizio, si è fuori servizio – e che l’intero team si senta supportato”.

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‘Ndrangheta, come funziona davvero l’algoritmo per stanarla

Author: Wired

Ed è proprio Bert uno dei componenti del software in via di sviluppo al Viminale, che tra le altre cose permetterà di ricercare termini, nomi, luoghi o date inserendoli nel giusto contesto e fornendo in modo più veloce informazioni che altrimenti resterebbero imprigionate in una mole di dati difficilmente esplorabili. “Nessuno ha mai specificamente applicato modelli di questo genere in un contesto investigativo, peraltro così specifico e peculiare come quello della ‘ndrangheta – prosegue Bui -. Addestrare una rete a conoscere un fenomeno che di per sé è molto complesso significa prima di tutto capire il fenomeno, poi bisogna farlo capire alla rete”.

A quel punto sono sufficienti l’intuito e l’esperienza investigativa per far emergere da un ammasso di dati informi una traccia che può essere seguita per attivare tempestivamente un servizio di osservazione o una intercettazione. “Alcuni eventi possono anche non essere di natura criminosa – aggiunge Bui – Come il movimento di persone di interesse che si spostano per un compleanno o in una specifica data, che ci permette di conoscere eventuali ricorrenze importanti e di inferire cosa potrebbe accadere in futuro al ricorrere di tali date”. 

article imageL’Interpol ha arrestato 75 membri di Black Axe

Si tratta della prima operazione ad hoc contro una delle organizzazioni cyber criminali più rodate al mondo. Coinvolti quattordici paesi tra cui anche l’Italia, con tre arresti a Campobasso

La mappa del potere mafioso

Rizzi spiega a Wired che il progetto di un software a sostegno di I-Can “nasce da due condizioni. La prima è che nel tempo abbiamo assistito a una colonizzazione all’estero della ‘ndrangheta. Sono circa 40 i paesi nel mondo dove la ‘ndrangheta ha una presenza strutturale con personaggi di spessore criminale”. 

La seconda – prosegue il prefetto – è che la sala operativa internazionale, l’hub che raccoglie tutte le informazioni dal mondo, processa 700 messaggi al giorno, contro i 400 dell’Interpol”. 

L’Italia infatti indaga sulle cosche scambiando informazioni sulla base di accordi bilaterali, come quello con il Congo. Da qui l’idea di trasformare “dati molto parcellizzati in dati esplorabili, ricondotti da 3-400 categorie di base ad alcune macro-categorie”, dice Rizzi. E attraverso questi dati tracciare e anticipare l’espansione della ‘ndrangheta. Che sembra per ora inarrestabile.

Secondo l’ultimo rapporto della Dia, “la ‘ndrangheta è presente a Girona e nella provincia di Madrid, a Murcia e in Catalogna. Ed “esponenti della ‘ndrangheta, inizialmente impiantati in Liguria si sono spostati nella Costa Azzurra, vista come naturale continuità lungo la costa del Mar ligure, andando a stabilirsi in città come Nizza, Mentone, Cannes, ove attualmente è presente una seconda generazione di mafiosi calabresi”. E ancora Regno Unito, “attratta dalla facilità di riciclare denaro offerta dal sistema economico-giuridico anglosassone”. 

Il Belgio è utile per il ruolo che il porto di Anversa può giocare nel narcotraffico dal Sudamerica. Così come l’Olanda, dove la ‘ndrangheta “è dedita in prevalenza alle attività legate al narcotraffico e al riciclaggio”. E ancora Germania, Austria, Albania, Slovacchia per restare in Europa. In Canada, “a Toronto, la ’ndrangheta opererebbe attraverso strutture a carattere intermedio con funzioni di coordinamento e supervisione, quali la “commissione” o “camera di controllo”. Tali strutture, nonostante l’indissolubile legame con la provincia di Reggio Calabria, avrebbero una maggiore autonomia rispetto al passato”, poi Messico, Colombia, Argentina, Brasile. E Australia, dove si crede sia presente una struttura locale fotocopia della ‘ndrangheta calabrese.

La ‘ndrangheta non è un problema italiano ma mondiale – osserva Giovanni Bombardieri, procuratore della Repubblica di Reggio Calabria -. Ha assoldato i migliori professionisti per infiltrare le economie legali attraverso i proventi delle attività illecite, dialoga e fa affari con i più pericolosi cartelli criminali in tutto il mondo”. 

Non a caso I-Can vede seduti al tavolo tutti i Paesi maggiormente colpiti. “Il progetto I-Can è volto a far comprendere la pericolosità della minaccia mafiosa, che l’Italia ha pagato con un costo altissimo – dice Rizzi – perché nelle giurisdizioni di molti paesi manca una previsione specifica contro la mafia”. 

Il prefetto Vittorio Rizzi

Il prefetto Vittorio Rizzi ANDRE PAIN/AFP via Getty Images

Lavoro di squadra

Per Bombardieri, “fino a poco tempo fa la cooperazione internazionale di polizia veniva attuata solo nella fase finale delle indagini, nell’esecuzione degli arresti e nella cattura dei latitanti. Oggi il coordinamento avviene molto prima perché occorre portare avanti le indagini contemporaneamente nei vari Paesi del mondo”.

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Robot killer, San Francisco fa marcia indietro

Author: Wired

Ci sono molte ragioni per cui armare i robot è una cattiva idea – sostiene Peter Asaro, professore associato alla New School di New York che si occupa di ricerca sull’automazione delle forze di polizia ed è convinto che il piano di San Francisco faccia parte di un movimento più ampio finalizzato alla militarizzazione della polizia –. È dannoso per il pubblico, e in particolare per le comunità di colore e le comunità povere“.

Asaro è scettico anche nei confronti dell’idea secondo cui le armi in dotazione ai robot possano essere sostituite da bombe e sottolinea che l’uso di esplosivi in un contesto civile non potrebbe mai essere giustificato (attualmente alcune forze di polizia negli Stati Uniti utilizzano robot muniti di bombe per determinati interventi; nel 2016, per esempio, la polizia di Dallas ha utilizzato uno di questi robot per uccidere un sospetto in quello che gli esperti hanno definito un caso “senza precedenti”).

Secondo Asaro, l’introduzione di robot killer minerebbe la capacità delle forze di polizia di interagire con la comunità anche in altri modi: “Non c’è un numero sufficiente di applicazioni in cui saranno utili“, dice. Nel frattempo, altre applicazioni in cui i robot svolgono un ruolo importante – come il trasporto di telefoni e altri oggetti nelle trattative con gli ostaggi – verrebbero compromesse dal sospetto che la macchina possa in realtà essere in grado di sparare.

Ma al di là degli aspetti pratici, c’è una questione più fondamentale: i robot di qualsiasi tipo, anche se controllati a distanza, non dovrebbero essere in grado di uccidere. Per Aitken, sarebbe sbagliato permettere ai robot di prendere decisioni che determinano la vita o la morte di una persona: “C’è una chiara dissociazione tra l’azione e la persona che prende la decisione – spiega –: è l’essere umano che prende la decisione di agire, ma è il robot a eseguirla fisicamente su ordine di una persona che potrebbe non avere un quadro completo della situazione“.

Il futuro del progetto

La retromarcia da parte di alcuni membri del Consiglio dei supervisori di San Francisco sull’uso della forza letale nei robot è stata accolta con favore dagli attivisti che la scorsa settimana hanno cercato di impedire la decisione: “Grazie agli appassionati residenti della Bay Area [l’area metropolitana intorno alla Baia di San Francisco, ndr] e alla leadership dei supervisori Preston, Ronen e Walton, oggi il Consiglio ha votato contro l’uso della forza letale da parte della polizia di San Francisco mediante robot controllati a distanza“, ha dichiarato Matthew Guariglia, analista politico della Electronic frontier foundation.

La tregua però è solo temporanea: il Consiglio rivaluterà la decisione in futuro, trovandosi di fronte con ogni probabilità a una reazione altrettanto forte, dice Guariglia. “Se la commissione dovesse riconsiderare la questione, la comunità deve unirsi per fermare questo pericoloso uso della tecnologia”.

Questo articolo è comparso originariamente su Wired UK.

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Cani anti-bomba, negli Stati Uniti stanno sparendo

Author: Wired

Inoltre, programmi come il Patriotic puppy program dell’American kennel club stanno cercando di formare agli allevatori esistenti sui requisiti e i criteri necessari per concentrarsi specificamente sui cani per il rilevamento degli esplosivi. I progressi però saranno graduali e ci vorranno anni per vedere i primi frutti. “Vorrei che fossimo molto più avanti, ma la pandemia ha rallentato la ricerca e tutti i programmi – ha raccontato Otto a Wired US –. Ha limitato l’afflusso di esemplari da oltreoceano e rallentato i progressi verso delle alternative. È stata un brutto colpo“. A ottobre, il Government accountability office (Gao) degli Stati Uniti ha pubblicato un rapporto di quasi cento pagine sui cani da lavoro e sulla necessità che le agenzie federali tutelino meglio la loro salute e il loro benessere. Secondo il Gao, a febbraio il governo federale degli Stati Uniti disponeva di circa 5100 cani da lavoro, compresi gli esemplari per il rilevamento degli ordigni, distribuiti su tre agenzie federali. Altri 420 cani “servivano il governo federale in ventiquattro programmi gestiti da appaltatori all’interno di otto dipartimenti e due agenzie indipendenti“, si legge nel rapporto.

Il documento sottolinea anche il potenziale sovraccarico di lavoro nei casi in cui non ci sono abbastanza esemplari a disposizione. “I cani potrebbero aver bisogno di correre velocemente all’improvviso, o di saltare una barriera alta, così come della resistenza fisica per camminare tutto il giorno – prosegue il rapporto–. Potrebbero dover cercare tra le macerie o in condizioni ambientali difficili, come caldo o freddo estremi, spesso indossando pesanti corazze. Potrebbero anche passare la giornata a rilevare odori specifici tra migliaia di altri, un’attività che richiede grande concentrazione. Ogni funzione esige che i cani siano sottoposti a un addestramento specializzato“. Con la fine delle restrizioni imposte dalla pandemia, le istituzioni statunitensi si stanno affannando per recuperare il tempo perduto su due fronti ugualmente importanti: lo sviluppo di procedure per ottenere cani anti-bomba idonei e l’allevamento dei cuccioli. 

L’Auburn University si concentra sul primo aspetto. “Ad Auburn siamo stati fortunati perché la pandemia non ci ha costretti a interrompere del tutto la ricerca, ma abbiamo risentito di problemi legati alla programmazione, alla catena di approvvigionamento, a tutte quelle cose che rallentano il ritmo del progresso – spiega Skip Bartol, decano associato dell’Auburn University College of Veterinary Medicine –. Non c’è ancora una tabella di marcia verso una soluzione definitiva per l’approvvigionamento nazionale di cani da rilevamento, ma quello che stiamo cercando di fare è stabilire le migliori pratiche scientifiche, dalle decisioni corrette in campo genetico sull’allevamento dei cani da rilevamento fino al sviluppo dei cuccioli passando per come l’ambiente iniziale influisce sul loro potenziale per tutta la vita“.

I problemi a livello di approvvigionamento e allevamento durante la pandemia fanno sì che la popolazione di cani anti-bomba impiegati negli Stati Uniti in questo momento potrebbe invecchiare e venire sfruttata ancora di più del solito. Il risultato è che il paese dipende ancora pesantemente dall’approvvigionamento di cani per il rilevamento degli esplosivi dall’estero. Come evidenzia Otto, “è una combinazione di fattori, ma sicuramente c’è ancora una domanda per lo più insoddisfatta“.

Questo articolo è comparso originariamente su Wired US.

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I robot killer di San Francisco sono una minaccia per le minoranze

Prima del voto del 29 novembre, Brian Cox, direttore dell’Unità per l’integrità dell’ufficio del difensore pubblico di San Francisco, ha definito la modifica in contrasto con i valori progressisti che la città rappresenta storicamente, esortando il Consiglio dei supervisori a respingere la proposta della polizia di San Francisco: “È una falsa scelta, basata sulla paura e sul desiderio di farsi le regole da soli“, ha scritto Cox in una lettera indirizzata al Consiglio.

Cox ha affermato che l’uso di robot in grado di uccidere nelle strade di San Francisco potrebbe causare seri danni, aggravati dalla “lunga storia di uso eccessivo della forza da parte della polizia di San Francisco, in particolare contro le persone di colore“. Anche l’American civil liberties union, la Electronic frontier foundation e il Lawyers committee for civil rights hanno espresso la loro opposizione alla norma.

Il Dipartimento di polizia di San Francisco ha comunicato di avere 17 robot, 12 dei quali sono operativi. Tra questi ci sono macchine per la ricerca e salvataggio progettati per essere utilizzati dopo un disastro naturale come un terremoto, ma anche modelli che possono essere equipaggiati con fucili, esplosivi o spray al peperoncino.

Precedenti controversi e poca coerenza

Il membro del Consiglio dei supervisori Aaron Peskin ha accennato ai possibili danni derivanti dall’uso di esplosivi da parte della polizia durante il dibattito che ha preceduto il voto sulla norma. Nel 1985, durante un’operazione a Filadelfia, la polizia sganciò dell’esplosivo da un elicottero su una casa, provocando un incendio che uccise 11 persone e distrusse 61 abitazioni.

Peskin ha definito l’episodio come uno dei più atroci e illegali nella storia delle forze dell’ordine statunitensi, aggiungendo però di essere confortato dal fatto che a San Francisco non si siano mai verificati incidenti simili. Alla fine Peskin ha votato a favore della norma, inserendo un vincolo che consente solo al capo della polizia, all’assistente capo delle operazioni o al vice capo delle operazioni speciali di autorizzare l’uso della forza letale con un robot, oltre a una formulazione che invita a prendere in considerazione opzioni per il ridimensionamento delle crisi.

L’approvazione dei robot con licenza di uccidere è l’ultimo colpo di scena in una serie di leggi relative all’uso della tecnologia da parte della polizia emanate dalla città San Francisco. Dopo aver approvato una legge che vieta l’uso dei taser da parte della polizia nel 2018 e impedito il ricorso al riconoscimento facciale nel 2019, a settembre l’amministrazione della città ha concesso alla polizia l’accesso ai filmati delle telecamere di sicurezza private.

Source: wired.it