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Come è andata la missione di Walter Villadei sulla Stazione spaziale internazionale

Author: Wired

C’è una collaborazione tra l’Aeronautica militare, il mondo della ricerca scientifica e quello dell’impresa alla base della partecipazione del colonnello Walter Villadei alla missione Ax-3 Voluntas, che tra gennaio e febbraio ha portato l’astronauta italiano per 18 giorni a bordo della stazione spaziale internazionale.

Una collaborazione il cui racconto è stato al centro di un evento organizzato nella mattinata di mercoledì 21 febbraio al Palazzo dell’Aeronautica di piazza Novelli a Milano. “Chi in passato è stato protagonista dello spazio, continua ad esserlo. Oggi però si affacciano i privati: è fondamentale lavorare con loro, pur avendo finalità diverse possiamo fare un percorso parallelo”, ha sottolineato il generale Aurelio Colagrande, Sotto Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica.

Dimostrazione plastica di questa collaborazione nel parterre della mattinata, che ha visto presenti i rappresentati di diverse aziende coinvolte in Ax-3 Voluntas, dalle startup a realtà industriali con una storia ultracentenaria. “Uno schema innovativo che permetterà di promuovere la presenza italiana nello spazio”, ha affermato Villadei.

Importanti sinergie

È stato Walter Villadei, del resto, ad indossare la tuta spaziale SFS (Smart flight suit) progettata da Spaceware, ideata per migliorare il confort degli astronauti e soprattutto dotata di device miniaturizzati per monitorare i loro parametri biometrici. Mentre, all’interno della stazione spaziale ha utilizzato EMSI, una tuta progettata da Rea Space in collaborazione con il Politecnico di Bari e realizzata utilizzando il grafene con l’obiettivo di stimolare la contrazione muscolare degli astronauti. Limitando così la perdita di massa magra, stimata nel 10-12% ogni mese, un problema da risolvere in vista di lunghi viaggi spaziali.

Sempre parlando di problematiche legate alla salute in ambienti con microgravità ci sono gli effetti sul sistema cardiovascolare. Ad esempio, aumenta l’irrorazione dei reni con conseguente incremento della diuresi e del rischio di disidratazione. Per capire meglio il fenomeno, GWM Assistance ha monitorato i parametri vitali di Villadei nei 9 giorni precedenti al lancio e negli 8 successivi al ritorno sulla Terra.

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Come sarebbe fare un’operazione chirurgica sulla Stazione spaziale internazionale?

Author: Wired

Per la prima volta, un team di chirurghi ha effettuato un’operazione chirurgica attraverso un robot fisicamente situato sulla Stazione spaziale internazionale (Iss). Si è trattato in realtà di una simulazione, in cui le “mani” del robot, dotate di pinze e forbici, hanno tagliato degli elastici pensati per simulare le proprietà dei tessuti che costituiscono i vasi sanguigni o i tendini. Il robot si chiama SpaceMira, ed è stato progettato da un team dell’Università del Nebraska (Stati Uniti), in collaborazione con l’azienda statunitense Virtual Incision.

Il robot-chirurgo dello Spazio

SpaceMira è lungo poco più di 70 centimetri e pesa meno di un chilogrammo. La sua forma, si legge in una news dell’Università del Nebraska, ricorda un po’ quella di un grosso frullatore a immersione. Il robot è dotato di due “arti”, per così dire, uno munito di pinze e l’altro di forbici per questo esperimento. SpaceMira contiene inoltre una telecamera che consente all’operatore di vederne e quindi controllarne i movimenti. Grazie anche a un finanziamento della Nasa, il robot-chirurgo è potuto partire per lo spazio il 30 gennaio, quando è stato spedito dalla stazione di Cape Canaveral (Florida) a bordo di un razzo dell’azienda aerospaziale SpaceX, per arrivare infine sulla Iss due giorni dopo, il 1 febbraio. L’astronauta della Nasa Loral O’Hara si è occupata poi di “accogliere” il nuovo arrivato a bordo della Stazione spaziale internazionale.

Un ritardo di circa mezzo secondo

La simulazione è stata effettuata il 10 febbraio utilizzando una console fisicamente situata all’interno della sede centrale della Virtual Incision, che si trova a Lincoln, in Nebraska. Michael Jobst, medico specializzato in chirurgia colorettale, uno dei sei chirurghi che si sono alternati al controllo di SpaceMira durante la simulazione, aveva già utilizzato il robot in passato, nel contesto di uno studio clinico condotto nel 2021. Ma manovrare il sistema nello Spazio significa operare in assenza di gravità e con un certo ritardo – che durante la dimostrazione è andato da due terzi a tre quarti di secondo – nei movimenti effettivamente eseguiti dal robot, a causa del tempo che il segnale impiega ad arrivare dalla Terra alla Iss.

Nel complesso comunque l’operazione è stata considerata come un successo.È un grande passo avanti per la chirurgia”, ha dichiarato Ted Voloyiannis della Texas Oncology di Houston (Stati Uniti). Secondo il chirurgo, infatti, SpaceMira è un robot più accessibile rispetto a quelli che lui stesso ha utilizzato in passato per eseguire interventi chirurgici assistiti. Tra l’altro, aggiunge, questa tecnologia potrebbe risultare di grande aiuto anche sulla Terra, “per le piccole comunità che non hanno chirurghi specializzati”.

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L’astronauta americano con il record di permanenza nello spazio

Author: Wired

Rubio, Prokopyev e Petelin hanno quindi dovuto prolungare la loro missione da sei mesi a più di un anno, mentre il Roscosmos e la Nasa lanciavano una navicella di emergenza. Durante l’attesa, il team ha studiato l’impatto del micrometeorite per evitare che una situazione simile si ripeta e ha continuato gli esperimenti previsti per la cosiddetta Spedizione 68 insieme al resto degli astronauti dell’Iss.

La Spedizione 68 è la più recente missione a lungo termine condotta nella Stazione spaziale internazionale. Era composta da sette membri permanenti, con 11 donne e uomini di diverse nazionalità che si avvicendavano. Il team ha svolto numerose indagini, ma tre in particolare si sono distinte: lo studio delle strutture cristalline delle proteine in condizioni di microgravità, la generazione di acqua potabile nelle missioni spaziali a partire dalle urine e il proseguimento del progetto Habitat Plan, che prevedeva la coltivazione di piante nello spazio. Frank Rubio era responsabile delle coltivazioni.

L’attuale record assoluto di permanenza ininterrotta nello spazio è detenuto da Valeri Poliakov, che ha trascorso 437 giorni tra il 1994 e il 1995. Al secondo posto c’è un altro russo, Sergei Avdeyev, con 379 giorni. Frank Rubio è il primo astronauta americano a superare i 360 giorni di permanenza sull’Iss.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired en español

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Come dormono gli astronauti sulla Stazione spaziale internazionale?

Author: Wired

Tecnicamente avviene per tutti in maniera piuttosto simile. Gli astronauti sulla stazione spaziale internazionale dormono seguendo una routine e abitando spazi dedicati. Niente camere da letto però, ma qualcosa che possa dirsi tale: piccole stanzette, da considerare come spazi privati, riservati al riposo, e magari a una telefonata a casa a parenti e amici, o alla visione di un film. Non ci sono materassi, cuscini, coperte: il letto sulla stazione spaziale internazionale (Iss) è un sacco a pelo dove ci si infila prima di dormire. Alcuni si legano per smettere di muoversi durante il sonno, altri, come raccontava la nostra Samantha Cristoforetti, due volte a bordo della Stazione spaziale, si lasciano invece fluttuare in condizioni di microgravità.

Ritmi sfasati in orbita

Dormire lassù però, a circa 400 km di distanza, facendo il giro della terra 16 volte al giorno non è semplice. I ritmi circadiani, quella sorta di orologio interno che ci permette di adattarci all’ambiente esterno, facendoci per esempio svegliare con l’arrivo della luce e conciliando il sonno con il buio, possono sfasarsi in orbita, dove albe e tramonti si susseguono per 16 volte al giorno. Anche gli ambienti possono non sono del tutto confortevoli e richiedono un certo grado di adattamento.

Ma non solo: la vita sulla Iss può mettere a dura prova il sonno. Come ricordava infatti uno studio sul tema qualche tempo fa altri fattori, oltre quelli più strettamente fisici, possono combinarsi per compromettere il sonno. Per esempio, scrivevano i ricercatori cinesi, lassù gli astronauti sperimentano un ambiente che per quanto stimolante può risultare monotono, vivono abbastanza isolati e conducono esperimenti ed attività per cui è richiesta una grande competenza, ovvero un elevato grado di attenzione. Tutti questi fattori possono combinarsi per rendere difficile dormire e dormire bene. Col risultato che si dorme generalmente meno che a terra e meno di quanto consigliato e generalmente (ovvero non per tutti, non sempre) peggio: circa sei ore al giorno contro le 7-8 generalmente raccomandate.

Organizzazione e una corretta igiene del sonno

Detto questo, non sorprende dunque che – anche in vista di missioni di più lunga durata, magari quelle dirette su Marte – si cerchi di capire come migliorare il sonno in orbita. Non è un problema solo di benessere, ma di sicurezza e salute in primis ricorda la Nasa, stilando una lista delle strategie che aiutano gli astronauti a raggiungere un buon riposto in orbita. Rispettare una routine di lavori e di riposo che assecondi i ritmi circadiani compare in cima alla lista dei consigli, così come osservare una corretta igiene del sonno: i consigli di ridurre gli stimoli luminosi in prossimità del sonno, di evitare cibi pesanti o stimolanti come la caffeina, e di organizzare l’attività fisica così da non intralciare il sonno, valgono anche a 400 km di distanza. C’è spazio poi, al bisogno, anche per rimedi naturali come la melatonina (per favorire il sonno), la terapia cognitivo comportamentale per cercare di arginare il flusso dei pensieri e, solo dopo opportuni test prima della partenza, magari anche a farmaci che possono favorire il sonno.

Luci rosse per dormire

Lavorare con le luci è un’altra delle strategie su cui si lavora da tempo: lo scopo è di ottimizzare l‘illuminazione favorendo al tempo stesso un’alternanza di spettri che assecondi i ritmi circadiani (e il sonno appunto). Continuando questo filone di studi, al lavoro in questi giorni e proprio con questo scopo è anche l’astronauta danese dell’Esa Andreas Mogensen, da poco tornato a bordo della Stazione spaziale. Qui, nella sua camera/cabina l’astronauta ha posizionato una lampada speciale, soprannominata Circadian Light (sviluppata da SAGA Space Architects from Copenhagen).

Lo scopo della lampada infatti è di aiutare l’astronauta a mantenere i ritmii circadiani anche in orbita, fornendo stimoli luminosi che cercando di replicare il più possibile le luci della sera (rossicce) e quelle della mattina (sul blu), così rispettivamente da favorire il sonno nel momento in cui si va a dormire, e il risveglio alla mattina. “Lo spazio è noioso, abbiamo bisogno di stimoli” è infatti il motto degli ideatori della lampada, secondo i quali le variazioni indotte dalla luce possono aiutare a ricreare una routine in grado di replicare giorno e notte sulla Terra, favorendo secrezioni di melatonina e cortisolo, l’una che favorisce il sonno, l’altro il risveglio, e che sono alla base del ritmo circadiano.

Monitorare il sonno, dall’orecchio

Accanto alla lampada Mogensen durante il sonno indosserà un piccolo auricolare, appositamente progettato per registrare l’attività elettrica del cervello dell’astronauta nel sonno. Questo permetterà infatti di ottenere informazioni relativamente alla qualità del sonno, dal momento che l’elettroencefalogramma fotografa le varie fasi del riposo e serve anche per identificare eventuali disturbi del sonno.

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I rifiuti spaziali stanno diventando un problema serio, anche per la Iss

Author: Wired

Lo spazio si va facendo sempre più trafficato. E con ogni satellite che viene messo in orbita, si creano nuovi detriti destinati a trasformarsi in rifiuti spaziali. La comunità scientifica lo sa bene, tanto che ha deciso di lanciare un appello chiedendo uno sforzo globale per eliminare i rifiuti che orbitano attorno al nostro pianeta. Così come la Nasa, che di recente ha dedicato al problema un rapporto, in cui analizza i pericoli che corrono ogni giorno la stazione spaziale internazionale e i satelliti in orbita terrestre a causa dei rifiuti spaziali, le possibili soluzioni e il loro costo.

Un po’ di numeri

Per comprendere le dimensioni del problema è utile iniziare dando un’occhiata alle stime più aggiornate elaborate dallo Space Debris Office dell’Esa. Dal 1957 i lancia spaziali sono stati in totale 6.370, per circa 15mila satelliti inseriti in orbita, di cui 9.790 ancora nello spazio, e 7.200 ancora in funzione. Esplosioni, collisioni e incidenti di vario tipo sono avvenuti circa 640 volte, producendo un’enorme mole di frammenti che ora intasano l’orbita terrestre: le stime dell’Esa parlano di 36.500 detriti di dimensioni superiori ai 10 centimetri, un milione compresi tra uno e 10 centimetri, e 130milioni tra il millimetro e il centimetro.

In questo caso, non bisogna farsi ingannare dalle dimensioni. I rifiuti spaziali più piccoli e più abbondanti in realtà sono anche i più pericolosi, perché viaggiando a 28mila chilometri orari anche un frammento di pochi millimetri può provocare danni ingenti. Per farsi un’idea, diversi finestrini degli Space Shuttle, negli anni precedenti al loro pensionamento, sono stati sostituiti a causa dell’impatto di detriti spaziali che le analisi hanno poi dimostrato essere niente altro che microscopiche croste di vernice staccatesi da qualche satellite dopo decenni di onorato servizio nello spazio.

Nei decenni, gli incidenti spaziali causati dall’impatto con micrometeoriti e rifiuti spaziali (spesso difficili da distinguere gli uni dagli altri) non sono quindi mancati. Come nel caso del microsatellite militare francese Cerise, che nel 1996 si scontrò con un detrito proveniente dallo stadio superiore di un razzo Ariane 1, perdendo il suo stabilizzatore a gradiente di gravità (una lunga barra di metallo che serve a stabilizzare passivamente i satelliti). O in quello del satellite per le comunicazioni russo Ekspress AM11, distrutto da un oggetto non identificato (ma ritenuto quasi certamente spazzatura spaziale) nel 2006. O ancora, nel caso del satellite della Nasa Aura, dedicato allo studio dell’atmosfera, che nel 2010 ha perso metà dei suoi 11 pannelli solari in seguito all’impatto con detriti spaziali non identificati.

I rischi per la Iss

Veniamo alla stazione spaziale internazionale, sicuramente il più importante manufatto umano posizionato stabilmente nell’orbita terrestre. È facile immaginare che una struttura di quasi 100 metri, per 80 di larghezza, debba avere qualche problema a navigare uno spazio sempre più ingolfato da satelliti e pericolosa spazzatura. E in effetti è proprio così. Quando un detrito potenzialmente pericoloso di cui è nota l’esistenza si avvicina troppo alla stazione (ovvero quando la sua orbita lo porta a passare entro 50 chilometri dall’Iss), i protocolli della Nasa richiedono che venga messa in atto una procedura di evitamento, per scongiurare il rischio di una collisione. E la frequenza di questi interventi è in aumento da anni. Proprio in questo inizio di 2023 l’Iss ha già dovuto attivare i suoi motori due volte, a distanza di poco più di una settimana, per dribblare un incontro ravvicinato con due diversi satelliti. Dal 1999 è già accaduto 32 volte, con costi non indifferenti per ogni manovra, che ha calcolato il recente rapporto Nasa. Servono 70 chili di propellente per spostare la Stazione spaziale internazionale dalla sua orbita, e altrettanti per riportarla su quella precedente una volta superato il pericolo. Tutto considerato, parliamo ci circa un milione di dollari per manovra, per evitare danni stimati (nella peggiore delle ipotesi, cioè la distruzione della stazione o l’impossibilità di proseguire le operazioni) in circa 2-300 milioni di dollari.

È tempo di agire

Al momento, il rischio che corrono satelliti, stazioni spaziali e razzi che partono dal nostro pianeta è considerato ancora relativamente basso. Ma gli esperti assicurano che è destinato ad aumentare velocemente nei prossimi anni, in assenza di interventi decisi in ambito internazionale. Uno dei primi a sollevare la questione, negli anni ’70, è stato l’astrofisico della Nasa Donald Kessler, ideatore di quella che viene definita sindrome di Kessler: uno scenario ipotetico in cui la densità di satelliti e rifiuti in orbita attorno al nostro pianeta diventa così elevata, che una singola collisione tra due oggetti di dimensioni relativamente elevate (qualche decimetro di diametro), crea una reazione a catena, in cui i detriti prodotti provocano nuove collisioni, nuovi detriti, e così via. Il risultato, un tale affollamento di frammenti in orbita da rendere impossibile lanciare nello spazio nuovi strumenti, satelliti o razzi per decenni, in attesa che la gravità faccia il suo corso, portando la spazzatura spaziale a rientrare nell’atmosfera e disintegrarsi ricadendo sulla superficie.