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Pendolari delle ferrovie regionali, figli di un dio minore

In attesa di conoscere le cause del disastro in Puglia sulla tratta ferroviaria Andria-Corato, grazie al rapporto “Pendolaria” raccontiamo con i numeri e con i tagli di risorse pubbliche di questi anni perché è così dura per quasi 3 milioni di persone spostarsi ogni giorno con i treni locali.

Mentre si sta ricercando la causa del disastro ferroviario sulla tratta Andria-Corato in Puglia, che ieri ha causato la morte di 27 persone con decine di feriti, è balzato nuovamente alla cronaca un tema solitamente trascurato dalla politica e dalla stampa nostrana, il pendolarismo ferroviario.

Evitiamo di fare ipotesi azzardate sull’incidente, anche se potrebbe presto risultare che in base agli standard imposti dall’Agenzia Nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie, i treni su quel tratto di ferrovia pugliese circolassero solo per una deroga, che peraltro durava da anni.

Forse è bene parlare con i numeri, anche se i racconti dei passeggeri che ogni giorno affrontano un viaggio sui treni locali sarebbero molto più efficaci. Veri eroi di tutti i giorni.

In Italia il pendolarismo è un fenomeno rilevante. Sono quasi 3 milioni le persone che ogni giorno si spostano con il servizio ferroviario regionale. Passeggeri che spesso sopportano quotidiani ritardi, annullamenti di corse, affollamento, carrozze vetuste, sporche e non (o mal) climatizzate, guasti tecnici, furti di rame sulle linee, stop alle corse prima delle 22 e molti altri disagi.

Nelle città italiane si concentra l’80% della domanda di spostamento delle persone, per non parlare del trasporto merci dominato, con oltre il 90%, da quello su gomma. Quindi le politiche della mobilità dovrebbero avere come priorità proprio le ferrovie regionali. Ma i governi che si sono succeduti in quest’ultimo decennio hanno preferito investire in grandi opere, spesso poco utili ai cittadini, e in strade, cemento e asfalto ad uso e consumo dell’automobile privata e del trasporto merci su camion.

Il tema è sotto il continuo monitoraggio di Legambiente che con il suo rapporto “Pendolaria” (pdf) fa il punto annuale di questa che potremmo definire un’emergenza nazionale che però nel sud del paese diventa una sciagura.

Pensiamo ad esempio che ogni giorno i treni regionali che circolano in Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna sono meno di quelli della sola Lombardia (1.738 contro 2.300) e che i treni in circolazione nel meridione sono mediamente più vecchi di 4 anni rispetti a quelli circolanti al nord: 20,4 anni la media di età al sud contro i 16,6 di quelli a nord.

Molte delle linee nel sud sono più lente, spesso a binario unico, alcune non elettrificate e con sistemi di sicurezza meno tecnologici e aggiornati. Ma non è che in altre aree, come ad esempio il Lazio, seconda regione per numeri di pendolari, le cose vadano meglio.

Dal 2001 la competenza sul servizio ferroviario pendolare è passata alle Regioni che devono stabilire contratti di servizio con i concessionari (fino ad oggi soprattutto Trenitalia, e in futuro scelti con gare). Per il funzionamento del servizio le risorse sono garantite da finanziamenti Statali e regionali.

I tagli statali al servizio ferroviario regionale

L’ultimo rapporto “Pendolaria” ci dice che complessivamente dal 2010 i tagli al servizio ferroviario regionale sono stati pari al 6,5%, con punte del 18,9% in Basilicata, del 26,4% in Calabria, del 15,1% in Campania e del 13,8% in Liguria.

Ma al contempo si è assistito un po’ ovunque all’aumento del costo dei biglietti, con punte record in Piemonte (+47%), Liguria (+41%) e in Abruzzo e Umbria (+25%). In questo periodo sono poi state chiuse 1.189 km di linee ferroviarie.

In Puglia, dove si è verificato il disastro del 12 luglio, i tagli ai servizi sono stati del 3,6%, mentre le tariffe sono aumentate dell’11,3%.

A livello statale la riduzione dei finanziamenti è stata costante in questi anni, con una diminuzione delle risorse nazionali stanziate tra il 2009 e il 2015 pari al -20,5%.

Il rapporto di Legambiente spiega che il crollo nei trasferimenti è avvenuto con la Finanziaria 2010 e i tagli di Tremonti che introdusse una riduzione a regime del 50,7% delle risorse per il servizio. Si aprì così uno scenario di incertezza nella gestione di Contratti di Servizio che è ancora oggi una delle cause principali del degrado che vivono ogni giorno i pendolari.

In seguito il Governo Monti a fine 2011 intervenne per coprire una parte del deficit relativo al 2011 e al 2012, e poi introdusse un nuovo sistema di finanziamento del servizio legato in parte all’accisa su gasolio e benzina da trasporto e in parte attraverso un fondo unico per il trasporto pubblico locale per il ferro e la gomma che è in vigore ancora oggi. Dunque, atttualmente le risorse per il trasporto ferroviario pendolare sono in un’unica voce di spesa con il trasporto su gomma. Quando si dice la visione!

Anche se per il 2016 le risorse a disposizione saranno di poco superiori a quelle dello scorso anno (si passa da 4.819 a 4.925 milioni di €), queste restano inadeguate per i servizi necessari per i quali si stima, invece, una spesa annua di circa 6,5 miliardi di euro.

Ruolo delle Regioni

Visti i risultati del trasporto locale ferroviario in 15 anni si può affermare che il trasferimento dei poteri alle Regioni non ha funzionato. Nel rapporto di Legambiente si spiega come le Regioni abbiano certamente pagato il prezzo della disattenzione dello Stato e del taglio dei trasferimenti.

Oggi però le Regioni nel definire il Contratto di Servizio con i gestori dei treni, devono individuare i capitoli di spesa nel proprio bilancio per aggiungere risorse a quelle statali per potenziare il servizio (più treni in circolazione) e per il materiale rotabile (treni nuovi o riqualificati).

Una tabella riporta dati “imbarazzanti”. La quota degli stanziamenti per il servizio pendolare (dato 2014) sul bilancio regionale è ovunque molto bassa, ma tocca punte infime in alcune Regione del meridione, come la Puglia con appena lo 0,05% del totale.

Investire nel trasporto ferroviario regionale per i pendolari sarebbe un segno di una politica finalmente indirizzata ai veri e quotidiani bisogni dei cittadini e darebbe al contempo benefici all’ambiente, quindi per tutti, facendo abbandonare le auto private e riducendo la congestione del traffico.

Questa tragedia in Puglia sarà l’occasione per cambiare rotta o sarà dimenticata dalla politica? Comunque, va detto, molti politici e decisori pubblici che hanno gestito il servizio ferroviario regionale in questi anni sono moralmente colpevoli di aver reso la vita delle persone faticosa e, a volte, persino a rischio.

Autore: QualEnergia.it – Il portale dell’energia sostenibile che analizza mercati e scenari

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TTIP, il capitolo energia mette le fossili prima del clima

TTIP, il capitolo energia mette le fossili prima del clima

(Rinnovabili.it) – Spuntano nuovi particolari sulle intenzioni dei negoziatori europei del TTIP. Mentre è in corso a Bruxelles il 14° round che si concentra sul capitolo energia, da ieri il Guardian continua a far trapelare alcuni passaggi delle bozze su cui si sta discutendo l’accordo segreto sul commercio transatlantico. Oggi il quotidiano britannico all’origine del leak rivela che la formulazione di alcuni passaggi del testo potrebbe permettere all’UE di continuare a sovvenzionare l’energia fossile. Se ciò avvenisse, le promesse sul clima stipulate alla COP21 di Parigi varrebbero meno della carta su cui sono scritte.

I negoziatori riuniti a Bruxelles stanno di fatto proponendo un testo che presenta scappatoie rispetto alla promessa fatta dai paesi del G20 di azzerare i sussidi ai combustibili fossili entro 10 anni. La bozza relativa a commercio e sviluppo sostenibile con cui si presenta l’Ue, inoltre, mette sullo stesso piano e con la medesima importanza la lotta ai cambiamenti climatici e la necessità di prevenire alterazioni in ambito commerciale.

Le scappatoie sui sussidi alle energie fossili

Riguardo al taglio dei sussidi, la bozza riporta che ciò rappresenta obiettivo comune a UE e USA, ma è subordinato a “considerazioni sulla sicurezza delle risorse” e deve essere accompagnato da “misure per alleviare le conseguenze sociali associate con l’azzeramento dei sussidi”. In pratica, il primo passaggio può essere impugnato dai paesi più dipendenti dall’energia fossile – che avrebbero così una scappatoia per non onorare i propri impegni sul clima – mentre il secondo passaggio potrebbe spalancare la porta a nuovi sussidi, stavolta mascherati adeguatamente.

Per Colin Roche di Friends of the Earth si tratta di una palese foglia di fico: “Prevenire la distruzione del clima dovrebbe essere la priorità numero uno, i sussidi ai combustibili fossili dovrebbero essere il nemico numero uno”.

Il TTIP rende il commercio più importante del clima

Rispetto al secondo punto controverso, il Guardian riporta un passaggio dell’articolo 5 della bozza del capitolo sull’energia del TTIP, classificata come confidenziale e datata 23 giugno. Nel testo si legge: “Nello sviluppo dei sistemi di supporto pubblico, le Parti terranno in considerazione in modo appropriato il bisogno di ridurre le emissioni di gas serra e quello di limitare le alterazioni del commercio per quanto possibile”.

L’equiparazione di clima e esigenze commerciali non è affatto un buon punto di partenza: tutto sta nell’interpretazione che ne verrà data. Certo una formulazione tale del testo del TTIP sembra escogitata ad arte per aprire vie di fuga dagli impegni sul clima, lasciando lo scettro al commercio e al modello imperante di crescita economica. La vaghezza del testo di sicuro non aiuta a ribaltare lo status quo.

Autore: Rinnovabili

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L’attuale costo di produzione del fotovoltaico in Italia

Dati gli attuali costi di installazione e di gestione di un impianto fotovoltaico, a quanto si riesce a produrre un MWh di elettricità da solare in Italia? Una nuova analisi curata da RSE ha calcolato i valori LCOE sia per piccoli impianti su tetto che per grandi parchi a terra. Grid parity superata, market parity lontana.

In Italia oggi si riesce a produrre energia elettrica da fotovoltaico a costi che vanno dai 97 €/MWh, per un grande impianto al Sud, fino ad un massimo di 184 €/MWh per un 3 kWp al Nord, senza tenere conto delle detrazioni fiscali …

Autore: QualEnergia.it – Il portale dell’energia sostenibile che analizza mercati e scenari

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L’India seppellisce i diritti umani nelle miniere di carbone

L’India seppellisce i diritti umani nelle miniere di carbone

(Rinnovabili.it) – Abitazioni distrutte dai bulldozer senza preavviso né compensazioni, terre rubate alle comunità locali per espandere le miniere di carbone, in palese violazione dei diritti umani. È quello che succede quotidianamente in India, negli stati di Jharkhand, Odisha e Chhattisgarh. Sotto accusa finisce la compagnia statale Coal India grazie a un rapporto di Amnesty International pubblicato oggi e basato su un lungo lavoro sul  campo e centinaia di interviste agli sfollati.

La risposta del governo non si è fatta attendere, a stretto giro una nota del ministero dell’Energia indiano replica che le accuse sarebbero “una cospirazione per far deragliare lo sviluppo e il progresso dell’India”. Ma le prove raccolte nel dossier sono molte e la situazione non è certo nata ieri, per cui è piuttosto difficile insabbiare le tracce. Nel 2005 il governo aveva steso un piano d’emergenza che puntava tutto sulla produzione di carbone per supplire alle necessità del paese, alle prese con un processo di rapida industrializzazione messo a rischio da un piano energetico nazionale carente. In conseguenza, 16 miniere di carbone già esistenti erano state identificate come siti da espandere a tutti i costi.

I “costi” sono interi villaggi, comunità locali che si sono visti sottrarre le loro terre in modo totalmente illegale, senza ricevere nulla in compensazione, e spesso costrette ad abbandonare la proprie case in fretta mentre i bulldozer della Coal India avanzavano per abbatterle. Il maggior numero di casi ha colpito le comunità aborigene degli Adivasi, oltre 10mila persone costantemente tagliate fuori dal processo decisionale che riguarda terra, risorse e diritti.

L’India – il secondo consumatore mondiale di carbone, dopo la Cina – aveva avviato già nel 1979 un programma di requisizione delle terre di queste comunità dietro la promessa di posti di lavoro e compensazioni. Lavoro e denaro che non sono mai arrivati. Ad altri è andata anche peggio. “Gli abitanti di questi villaggi – spiega l’attivista ambientale Laxmi Chauhansono allontanati con la forza, vengono picchiati finché non se ne vanno. Interi villaggi vengono svuotati così. E loro non ottengono nulla in cambio”.

Autore: Rinnovabili

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Portare il prezzo della CO2 a 30 euro per tonnellata: la proposta francese

Il mercato EU-ETS non sta funzionando come dovrebbe, frenato dal surplus di quote di emissione. Così è sempre più difficile spostare gli investimenti verso le tecnologie più efficienti e pulite. La Francia propone di fissare un “corridoio di prezzo” e intende tassare più severamente i suoi impianti a carbone.

La Francia torna a parlare di carbon tax, dando voce al rapporto consegnato al ministro dell’ecologia Ségolène Royale dai tre saggi – Pascal Canfin, Alain Grandjean e Gérard Mestrallet – incaricati dal Governo di approfondire la questione.

Ecco, allora, le proposte per ridurre le emissioni di CO2 in linea con gli obiettivi della Cop21 parigina. La Francia è pronta a partire nel 2017 colpendo le sue centrali a carbone, che in verità sono poche. Il ministro concorda pienamente con gli autori dello studio quando affermano che il problema va affrontato e risolto a livello europeo, con un prezzo della CO2 che parta da almeno 20-30 euro/tonnellata.

I limiti del sistema EU-ETS

Il quadro è molto incerto, secondo lo studio francese, perché il sistema EU-ETS, che copre il 45% circa delle emissioni totali di CO2 in Europa, ha un fallito il suo scopo. Il prezzo della CO2 sul mercato continentale, infatti, è rimasto troppo basso: siamo intorno a 5 euro/tonnellata e anche le previsioni future, evidenzia il rapporto, sono molto inferiori al livello necessario per favorire la transizione energetica verso tecnologie a minore impatto ambientale.

D’altronde, se la singola tonnellata di CO2 costa così poco, alle industrie non conviene certo investire per migliorare l’efficienza dei processi produttivi e ridurre i gas-serra.

Surplus di quote

Bruxelles sta provando in vari modi a ristabilire un equilibrio tra domanda e offerta per i diritti di emissione; questi ultimi, è bene ricordare, sono assegnati a diversi settori industriali (cartiere, acciaierie, impianti termoelettrici eccetera) attraverso aste pubbliche europee con dei tetti annuali.

Chi inquina di più del limite stabilito, deve acquistare crediti di CO2 sul mercato secondario, dalle aziende che inquinano di meno. L’unica eccezione, che comporta una prevalente assegnazione di quote gratuite, è data dalle imprese a rischio carbon leakage, che potrebbero spostare le loro attività in Paesi extraeuropei dove le norme ambientali sono meno severe.

Verso un “corridoio di prezzo”

Tuttavia, la crisi economica e il rallentamento della produzione industriale hanno generato un surplus di quote inutilizzate, facendo crollare il valore dei crediti. A poco, finora, sono valsi i correttivi applicati dall’Unione Europea, come l’entrata posticipata sul mercato ETS delle quote invendute di CO2.

La soluzione, secondo i tre saggi, è stabilire un “corridoio di prezzo” con valori minimi e massimi. Il prezzo base, secondo gli autori dello studio, andrebbe fissato a 20-30 euro/tonnellata nel 2020, procedendo poi con incrementi annuali del 5-10% per arrivare così ad almeno 50 euro/tonnellata nel 2030.

Il prezzo plafond, invece, dovrebbe partire da 50 euro/tonnellata per raggiungere infine quota 100 in un decennio. Muovendosi dentro questo corridoio, sostengono gli esperti nominati dal Governo, il sistema ETS potrebbe diventare molto più efficace.

Certo alcune industrie sarebbero penalizzate, soprattutto quelle energivore manifatturiere più esposte alla concorrenza straniera; ecco perché sarebbero comunque indispensabili delle misure di “compensazione”, come l’assegnazione gratuita di un certo numero di quote.

La sovrattassa sul carbone francese

Per ora sembra difficile che l’Europa possa trovare un accordo su un tema così controverso. Il presidente francese Hollande, intanto, aveva annunciato ad aprile l’idea di confezionare una carbon tax sul settore elettrico francese, allo scopo di penalizzare il carbone e favorire le fonti meno inquinanti, in particolare il gas naturale.

La ricetta migliore, secondo gli autori del rapporto consegnato a Ségolène Royale, è introdurre una sovrattassa sugli impianti a carbone, quattro in tutta la Francia, con cinque unità attive per complessivi 3 GW di potenza installata.

Il Governo, quindi, potrebbe aumentare la tassa esistente TICC (taxe intérieure de consommation sur le houilles, lignites et cokes applicata a olio combustibile, lignite e carbone) oppure introdurre una nuova tassa differenziata secondo il rendimento delle diverse centrali termoelettriche.

Con un prezzo della CO2 a 20 euro/tonnellata, scrivono gli autori del rapporto, lo Stato francese potrebbe incassare oltre un miliardo di euro l’anno, contro i 315 milioni ottenuti nel 2015. Questi soldi aggiuntivi potrebbero finanziare le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica.

Va detto che, senza una politica condivisa in sede europea, il rischio è penalizzare gli impianti in casa propria per poi importare elettricità meno costosa da centrali più inquinanti in altri Paesi.

Riuscirà la Francia a convincere gli Stati membri a percorrere la sua stessa strada? Vedremo. Intanto uno studio tedesco ha proposto recentemente di includere i consumatori intermedi nello schema EU-ETS, grazie a una tassa sull’acquisto dei materiali ad alto contenuto di carbonio (vedi QualEnergia.it).

Autore: QualEnergia.it – Il portale dell’energia sostenibile che analizza mercati e scenari