Il primo (courtesy Nordea) rappresenta l’evoluzione dell’inflazione core negli Stati Uniti e in eurozona.
Negli Usa, gli ultimi dati segnalano un rallentamento dell’inflazione, che non depone a favore di un dollaro forte in quanto minori pressioni sui prezzi implica (o potrebbe implicare, se confermati) una Fed più moderata sul fronte dell’aumento dei tassi. In Eurozona, invece, dopo il calo del mese di marzo, l’inflazione core è risalita fino all’1.2%; il che depone a favore della prospettiva di riduzione degli acquisti di titoli di parte della BCE (probabilmente dal 2018).
Infatti, analizzando i flussi che stanno arrivando sul mercato azionario europeo emerge che, a seguito della vittoria di Macron, questi sono giunti al livello più alto da diversi anni e date le valutazioni più attraenti rispetto agli Usa non c’è motivo per ritenere che tale dinamica non continui anche nelle prossime settimane.
(Grafico courtesy Bank of America Merrill Lynch)
In grafico che segue, invece, rappresenta le posizione speculative nette (corte o lunghe) sull’euro e la dinamica del cambio eur/usd. (courtesy Reuters)
Come potete vedere, le posizione nette (long) hanno raggiunto i livelli più dal 2014, proprio a segnalare che gli operatori si attendono un euro più forte rispetto al passato
Dall’altra parte del continente, invece, vi è una situazione diversa.
Dopo l’entusiasmo (e le speranze ) con cui i mercati (e il dollaro) hanno salutato la vittoria di Trump, per lo più veicolato dalle attese sulla politica economica della nuova amministrazione Usa sul fronte dei tagli fiscali e del piano di investimenti, le difficoltà incontrate nei primi cento giorni della nuova presidenza hanno smorzato l’entusiasmo di partenza e sono numerose le incognite che gravano sull’entità di tali stimoli e sopratutto sui tempi di realizzazione.
Motivo per cui diversi politologi americani sono stati indotti a parlare a impeachment, la cui richiesta è stata tempestivamente raccolta dal democratico Al Green
A tal proposito, Fugnoli, nella sua rubrica, sembra sdrammatizzare la portata di un eventuale impeachment e lo fa con ragioni che appaiono plausibili e che mi sento di condividere.
Scrive Alessandro Fugnoli
Anche se si tratta di una procedura molto più politica che giudiziaria l’accusa ha bisogno, per evidenti ragioni di consenso, di qualche evidenza di reato e su Trump, al momento, non c’è assolutamente nulla. E d’altra parte è molto difficile che la camera bassa repubblicana avvii la procedura. Quella che c’è da qualche ora è invece una commissione d’inchiesta del Congresso sui presunti legami tra Trump e i russi. Commissioni simili furono una spina nel fianco di Reagan e di Clinton per molti anni ma non impedirono né all’uno né all’altro di terminare il loro mandato e di portare avanti le loro politiche. Lo scopo politico delle commissioni d’inchiesta di questo tipo non è quello di trovare la verità bensì quello di allargare a macchia d’olio l’indagine e tendere una fitta serie di trappole procedurali nell’attesa che qualcuno degli accusati o dei testimoni cada in contraddizione o dichiari il falso. Il pretesto iniziale è spesso debolissimo, ma l’accusa sa che la difesa, sotto pressione, commette sempre dei pasticci ed è proprio su questi pasticci che si conta di realizzare l’attacco mortale. I democratici non vogliono niente di particolarmente rapido contro Trump perché sanno che una presidenza Pence sarebbe popolare. Meglio tenere Trump sotto scacco senza dargli il matto in modo da vincere le elezioni di midterm dell’anno prossimo e riconquistare camera e senato.
Quindi, è evidente che il dollaro abbia sofferto tutta la preoccupazione derivante dal quadro appena descritto.
Tuttavia, come già detto, l’attenuarsi delle aspettative sul “Trump trade” e dati macro non esaltanti, hanno contribuito al deterioramento del sentiment sul dollaro.
Un grafico può sintetizzare quanto appena descritto.
Il grafico superiore mostra l’andamento del rendimento dei titoli governativi Usa a 2 e 10 anni. Il differenziale dei due rendimenti è espresso nel grafico inferiore (linea blu) e come vedete, dopo l’impennata successiva all’elezione di Trump, si assiste ad un progressivo deterioramento del differenziale, proprio a segnalare un ridimensionamento delle aspettative di crescita e quindi di inflazione. La linea rossa del grafico inferiore, invece, rappresenta la dinamica del dollar index, particolarmente correlata all’appiattimento della curva dei titoli di stato Usa.
Questo quadro sembra essere confermato dal deterioramento delle attese sull’inflazione Usa (grafico Bloomberg)
In tutto questo, c’è da considerare anche la Federal Reserve che, come sapete, è impegnata nel percorso di normalizzazione dei tassi. “Normalizzazione” è una parola grossa, visto che i tassi, comunque sia, sono destinati a rimanere comunque bassi e il ritmo del rialzo procede con molte incognite e difficoltà. Il mercato sembra scontare ancora un paio di aumenti nel 2017, di cui il prossimo a giugno. Fino a pochi giorni fa, le probabilità di un aumento nel mese di giugno erano vicine al 100%. Salvo poi scendere intorno al 70% a seguito delle rivelazioni del Washington Post di cui ho detto prima. Secondo me, salvo un significativo deterioramento dei dati macro nelle prossime settimane (o di uno shock sui mercati), la Fed dovrebbe proseguire nel suo lento percorso.
Questo potrebbe restituire forza temporanea al dollaro, anche perché,dopo la debolezza della scorsa settimana, un rimbalzo potrebbe anche verificarsi, anche se, a mio avviso, lo scenario di fondo, salvo mutamenti nel quadro macro e geopolitico, depongono a favore di un dollaro più debole.
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Autore: Paolo Cardenà Finanza.com Blog Network Posts