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Pegah Moshir Pour al Wired Next Fest 2024 di Milano: “L’Iran considera la minoranze tutte di serie B”

Author: Wired

In un continuo paragone tra Iran e Italia, tra il Paese in cui è nata e quello in cui è cresciuta dai 9 anni in poi, Pegah Moshir Pour dal palco del Wired Next Fest 2024 di Milano parla di diritti violati, di discriminazioni e di una cultura del dialogo che manca. “Non la vedo in Italia e nemmeno in tutto l’occidente, non mi aspetto quindi che ci sia in un Paese come l’Iran. Ma noi oggi abbiamo una grande responsabilità globale, perché il nostro voto può cambiare le cose, soprattutto qui, dove il nostro voto è reale e viene davvero contato” spiega.

Citando movimenti come #MeToo, “Non una di meno” e “Donna, vita, libertà”, descrive un cambiamento culturale in corso nella lotta per i diritti delle donne, “ma è ancora molto lento, perché manca una metà di mondo che ancora non combatte per averlo. Non vive il problema sulla propria pelle e noi donne ci troviamo a combattere da sole”. Vale per l’Italia, e anche per l’Iran, dove racconta di donne emancipate e molto spesso impegnate in studi scientifici: “le famiglie oggi appoggiano fortemente le proprie figlie nei loro studi, perché sanno che sarà per loro importante essere indipendenti. È una piccola rivoluzione interna che sta avvenendo, come anche in Italia, solo che lì si fa tre volte più fatica”.

La situazione reale attuale del Paese è narrata ampiamente nel suo libro La notte sopra Teheran (Garzanti), un testo in cui traspare anche la voglia di mettere in luce i ragazzi di terza cultura come lei, “quelli che si trovano a vivere tra due culture, e si parla di ‘terza’, per ricordare che accogliere una novità non è mai una sottrazione e nemmeno una sostituzione, ma un aggiungere” spiega, ricordando i due milioni di giovani a cui oggi non viene riconosciuta la cittadinanza, anche se sono italiani come lei: “la nuova Italia siamo noi”.

Da attivista dei diritti digitali, Pegah Moshir Pur porta sul palco anche il tema dell’uso delle tecnologie in un regime come l’Iran. “È un Paese con una infrastruttura molto potente, che la usa per controllare ogni cosa e fare attacchi cyber. Per molti giovani, quindi, studiare informatica diventa il modo per rompere i filtri della censura. È necessario avere una buona formazione, per portare avanti azioni collettive digitali oggi necessarie”.

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X è invasa dalla fake news sull’attacco dell’Iran a Israele

Author: Wired

Nelle ore successive all’attacco con droni e missili sferrato dall’Iran contro Israele il 13 aprile, su X sono circolati molto diversi post falsi o fuorvianti, che sono diventati quasi subito virali. L’Institute for strategic dialogue (Isd), un think tank senza scopo di lucro, ha rintracciato una serie di post che sostenevano di documentare l’offensiva e il suo impatto, ma che invece contenevano video e foto generati dall’intelligenza artificiale oppure filmati tratti da altri conflitti, che mostravano il lancio di razzi nella notte, esplosioni o addirittura il presidente statunitense Joe Biden in tenuta militare.

I post falsi su X

Secondo l’Isd, 34 di questi post hanno raccolto da soli più di 37 milioni di visualizzazioni. Molti degli account che hanno pubblicato i tweet inoltre erano verificati, il che significa che i titolari pagano 8 dollari al mese al servizio per ottenere la “spunta blu” e fare in modo che i loro contenuti vengano amplificati dall’algoritmo della piattaforma. Il think tank ha anche scoperto che gran parte dei profili in questione si presentano come esperti di intelligence open source (Osint), un espediente che negli ultimi anni è diventato molto usato per provare a dare legittimità ai propri post.

Dopo l’attacco dell’Iran, uno di questi utenti ha scritto su X che “la terza guerra mondiale è ufficialmente iniziata”, condividendo una clip che sembrava mostrare il lancio di razzi nella notte, ma che in realtà era tratta da un video di YouTube del 2021. Un altro video pubblicato sulla piattaforma sosteneva di immortalare il sistema di difesa missilistico israeliano, Iron Dome, durante l’attacco, ma in realtà risaliva all’ottobre 2023. Entrambi i post hanno ottenuto centinaia di migliaia di visualizzazioni e provengono da account verificati. Ma su x ha iniziato a circolare anche un filmato inizialmente condiviso dai media iraniani che mostrava degli incendi avvenuti in Cile all’inizio dell’anno spacciati per i postumi dell’incursione.

Il fatto che una tale quantità di disinformazione venga diffusa da account in cerca di popolarità o di vantaggi economici sta coprendo attori ancora più nefandi, come i media di stato dell’Iran che stanno spacciando le riprese degli incendi cileni per danni provocati dagli attacchi iraniani contro Israele per rivendicare l’operazione come un successo militare – afferma Isabelle Frances-Wright, responsabile di tecnologia e società dell’Isd –. La corrosione del panorama informativo sta minando la capacità del pubblico di distinguere la verità dalla falsità a livelli terribili“. Al momento della pubblicazione della versione originale di questo articolo X non aveva risposto a una richiesta di commento di Wired US.

La proliferazione della disinformazione su X

Nonostante la disinformazione relativa a conflitti e crisi di altro tipo abbia da tempo trovato casa sui social media, X viene spesso utilizzato anche per diffondere informazioni cruciali in tempo reale. Ma sotto la guida di Elon Musk, la piattaforma ha decimato il personale che si occupava della moderazione dei contenuti, permettendo alla disinformazione di prosperare. Nei giorni successivi all’attacco di Hamas del 7 ottobre, il social è stato inondato di fake news, che hanno complicato il lavoro dei veri ricercatori Osint legittimi che cercavano di dare visibilità a informazioni affidabili. Dopo l’acquisizione da parte dell’imprenditore, per contrastare le fake news X ha introdotto le Note della collettività (Community notes), una funzione di fact-checking in crowdsourcing che però ha prodotto risultati altalenanti. Quando l’Isd ha pubblicato il suo rapporto, solo due dei contenuti identificati dall’organizzazione erano stati integrati dalle Note (anche se altri si sono aggiunti successivamente).

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Il ruolo della Giordania nella crisi in Medio Oriente

Author: Wired

Il regno di Giordania, situato tra Israele, Siria, Iraq e Arabia Saudita, è un importante alleato degli Stati Uniti nel Medio Oriente. Nonostante inizialmente sia stato uno storico rivale e oppositore di Israele, a partire dagli anni Ottanta del Novecento i due paesi hanno costruito una produttiva cooperazione in materia di sicurezza. La solidità di questa cooperazione non è stata scalfita nemmeno dalla recente invasione israeliana di Gaza, nonostante in Giordania vivano milioni di profughi palestinesi, e confermata dall’intervento giordano contro i missili e i droni lanciati dall’Iran verso Israele.

Una linea di distensione

Membro fondatore della Lega araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, la Giordania è un paese di maggioranza sunnita, con un 6% della popolazione di fede cristiana di varie confessioni. Queste comunità sono ben integrate nel tessuto sociale, godono di ampia libertà religiosa e hanno due seggi ministeriali riservati e nove seggi riservati al Parlamento. Come quasi tutti gli altri paesi a maggioranza sunnita anche la Giordania non ha buoni rapporti con l’Iran a guida sciita.

A infastidire particolarmente il governo giordano, per conto dell’Iran, sono le molte milizie siriane e irachene che l’Iran finanzia da anni per estendere la sua influenza nella regione in funzione anti-statunitense. Tuttavia, la politica estera della Giordania è caratterizzata da anni da una linea di distensione, che ha avuto un’importante effetto di stabilizzazione anche all’interno dei confini. Il paese ospita anche basi militari statunitensi e della Francia, che garantiscono un rafforzamento delle sue difese militari.

Un’alleanza informale

Una di queste basi statunitensi è stata attaccata lo scorso 28 gennaio proprio da una milizia irachena legata all’Iran, causando 3 morti e 30 feriti tra il personale statunitense, ricevendo la condanna da parte del governo giordano. Anche per questo motivo, la Giordania è intervenuta attivando la sua contraerea per abbattere droni e missili lanciati dall’Iran verso Israele, come ritorsione per l’omicidio di Mohammad Reza Zahedi, generale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, ucciso durante un bombardamento israeliano a Damasco, in Siria.

Oltre alla Giordania e alle forze statunitensi, del Regno Unito e francesi presenti nell’area anche l’Arabia Saudita ha contribuito a contrastare l’attacco iraniano, portando così alla creazione di una sorta di alleanza informale in funzione anti-iraniana tra questi paesi e Israele. L’obiettivo è quello di contenere qualunque escalation del conflitto, che sta sconvolgendo Gaza e impegnando Israele su più fronti, all’intera area mediorientale.

In tutto questo, la Giordania è di importanza strategica fondamentale per le forze occidentali, fungendo da testa di ponte verso l’Iran e i suoi alleati in Iraq e Siria. Allo stesso tempo però, la vicinanza del governo giordano con Israele e gli Stati Uniti potrebbe creare problemi interni, fomentando il malcontento tra la popolazione di origine palestinese. Per questo, cercando di evitare critiche, le autorità giordane hanno detto di aver abbattuto i droni e i missili iraniani non per difendere Israele, ma per preservare la sicurezza del proprio spazio aereo.

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Cosa c’entra lo Yemen nello scontro tra Israele e Hamas

Author: Wired

Lo Yemen è un piccolo e poverissimo paese schiacciato ai piedi della penisola araba. Da otto anni è devastato da una guerra civile e da una terribile crisi umanitaria, che hanno costretto alla fame una parte consistente della popolazione. Nonostante ciò, il piccolo stato ha deciso di entrare nel conflitto tra Israele e Hamas, a sostegno dei fondamentalisti. Dietro a questa decisione, e a tirare le fila della milizia sciita che l’ha presa, c’è sempre l’Iran.

In Medio Oriente, l’Iran è l’unico paese apertamente alleato di Hamas e anche il più pericoloso. Senza il supporto iraniano Hamas non sarebbe riuscito a compiere l’attacco del 7 ottobre. E senza il supporto iraniano nessuna delle molte milizie che usa per esercitare la sua influenza nella regione sarebbero attive da molto tempo. Teheran finanzia infatti guerriglieri in Siria e Iraq, Hezbollah in Libano e, soprattutto, i ribelli Houthi in Yemen.

L’ascesa al potere degli Houthi, avvenuta tra il 2012 e il 2015, si intreccia con al Qaeda e l’Isis, con le primavere arabe e con lo scontro interno al credo musulmano tra sciiti, come l’Iran, e i sunniti, come l’Arabia Saudita. Per sintetizzare, gli Houthi, con l’appoggio dell’Iran, hanno spaccato nuovamente lo Yemen, diviso in due stati fino al 1990, rifiutando di riconoscere l’autorità di un presidente democraticamente eletto e sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita.

Come nel caso di Hamas oggi, senza l’Iran gli Houthi non avrebbero mai avuto abbastanza forza per tenere testa a una coalizione che comprende tutti i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar), con anche l’appoggio degli Stati Uniti.

Ma la posizione strategica del paese è stata sufficiente per giustificare lo scontro. Lo Yemen si trova infatti nella parte più meridionale della penisola arabica e controlla mezzo stretto di Bab el Mandeb, che collega il mar rosso con il golfo di Aden e quindi con l’oceano indiano. Pertanto è di importanza fondamentale per il commercio globale, compreso il passaggio di petrolio.

Inoltre, lo Yemen è da tempo considerato uno stato fallito, che entrambi i paesi più potenti del Golfo, Arabia Saudita e Iran, vorrebbero completamente sotto la propria influenza. In questo scontro, Riyadh fa forza sul fatto di avere un lunghissimo confine con lo Yemen e quindi avanza il diritto di dover mettere in sicurezza la zona per ragioni di sicurezza nazionale. Mentre l’Iran si può giocare unicamente la carta della stessa dottrina religiosa, essendo i due paesi separati dall’intera penisola araba e anche dal golfo Persico.

Da quando Hamas e Israele hanno intensificato il loro conflitto, gli Houthi si sono ovviamente schierati a favore di Hamas e hanno cominciato a lanciare alcuni droni e razzi verso l’Arabia Saudita, l’Egitto e, forse, anche verso Israele, ma questi ultimi sono stati intercettati da una nave da guerra statunitense nel mar Rosso prima di arrivare a destinazione.

Come riporta Reuters, gli Houthi hanno anche minacciato di coordinare un intervento militare coordinato con le altre fazioni sciite dell’Iran, in Iraq e con Hezbollah. Nonostante alcuni abbiano ipotizzato la possibile apertura di un nuovo fronte a causa degli Houthi, la loro forza militare è irrisoria se paragonata a quella israeliana e dell’Arabia Saudita, dove potrebbe effettivamente attaccare da terra.

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Cosa sappiamo dei bombardamenti degli Stati Uniti in Siria

Author: Wired

Con due bombardamenti di precisione contro depositi di munizioni e strutture offensive in Siria, gli Stati Uniti hanno dato il via alle loro prime operazioni di contenimento delle milizie sostenute dall’Iran, presenti in Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno così risposto al fuoco per la prima volta nella notte del 27 ottobre, dopo aver subìto 19 attacchi a bassa intensità verso le proprie basi in Iraq e Siria, che hanno ferito 21 soldati.

“Questi attacchi di autodifesa, di portata limitata, erano intesi esclusivamente a proteggere e difendere il personale statunitense in Iraq e in Siria. Sono separati e distinti dal conflitto in corso tra Israele e Hamas e non costituiscono un cambiamento nel nostro approccio al conflitto tra Israele e Hamas. Continuiamo a esortare tutte le entità statali e non statali a non intraprendere azioni che possano degenerare in un più ampio conflitto regionale”, ha detto il segretario della difesa statunitense Lloyd Austin.

Poche ore prima dell’attacco, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, aveva minacciato Washington dal podio delle Nazioni Unite, dicendo che nemmeno gli Stati Uniti “sarebbero stati risparmiati” se Israele non avesse interrotto immediatamente la sua offensiva contro Hamas. E tutti i gli attacchi subiti dalle truppe statunitensi in Siria e Iraq, sono stati rivendicati da gruppi controllati direttamente a Teheran o comunque legati alle Guardie rivoluzionarie dell’Iran.

In sostanza, la risposta di Washington si configura come un chiaro avvertimento a tutte le forze ostili a Israele presenti nel Golfo, in particolare l’Iran, esortandole a lasciare che Tel Aviv e Hamas chiudano il loro conflitto privatamente. In caso contrario, l’esercito degli Stati Uniti è più che pronto a rispondere. Negli ultimi giorni, la presenza statunitense nella zona è stata rinforzata con un nuovo contingente da 900 unità, nuove difese anti aeree e due portaerei piazzate nel Mediterraneo orientale.

Tuttavia, gli Stati Uniti stanno correndo in equilibrio su un filo molto sottile e la loro strategia potrebbe degenerare facilmente in uno scenario terrificante. Se da un lato Washington ha tutto l’interesse a colpire duramente l’Iran e le sue milizie in Siria, Iraq o Libano, dall’altra deve farlo evitando di infiammare la regione e scatenare un conflitto più ampio. Così, almeno per ora, è costretta a tenere al minimo l’uso della forza, limitandosi ad azioni simboliche come quella compiuta nella notte del 27 ottobre.