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Il buco nero supermassiccio più lontano di sempre

Author: Wired

Un gruppo di astronomi e astrofisici ha scoperto il buco nero supermassiccio più distante mai osservato ai raggi X. Il corpo celeste risale agli albori dell’universo e la sua identificazione potrebbe aiutarci a spiegare l’origine di altre strutture cosmiche simili, come quella al centro della Via Lattea.

La scoperta

Il team ha combinato gli strumenti di due tra i telescopi più potenti al mondo, il telescopio a raggi X Chandra e il James Webb Space Telescope (Jwst), trovando la “firma” di un buco nero attivo che si è formato 470 milioni di anni dopo il Big Bang e si trova nella galassia UHZ1 a 13,2 miliardi di anni luce dalla Terra, quando l’universo aveva solo circa il tre per cento della sua età attuale.

L'ammasso di galassie Abell 2744 dietro cui si trova UHZ1 e i primi piani della galassia e del buco nero

L’ammasso di galassie Abell 2744 dietro cui si trova UHZ1, e i primi piani della galassia e del buco nero (NASA/CXC/SAO/L. Frattare e K. Arcand)

Considerando la luminosità e l’energia dei raggi X provenienti da UHZ1, gli astronomi stimano che il buco nero abbia una massa compresa tra 10 e 100 milioni di volte quella del sole, che secondo la Nasa sarebbe simile a quella complessiva di tutte le stelle della galassia.

Riteniamo che questo sia il primo rilevamento di un buco nero ‘fuori scala’ [in inglese, ‘outsize black hole’, Ndr] e che rappresenti la migliore prova mai ottenuta finora del fatto che alcuni buchi neri si formano da massicce nubi di gas – ha dichiarato Priyamvada Natarajan, astrofisica all’Università di Yale e co-autrice dello studio –. Stiamo osservando per la prima volta la breve fase in cui un buco nero supermassiccio ha all’incirca la stessa massa delle stelle nella sua galassia”.

Come nascono i buchi neri supermassicci

I buchi neri si formano a partire dal collasso gravitazionale di stelle massicce alla fine della loro vita. Ma esistono anche buchi neri supermassicci, la cui massa è milioni di volte superiore a quella di una stella convenzionale. Sebbene questi corpi cosmici si trovino generalmente al centro delle galassie, non c’è ancora un consenso sulla loro origine.

L’ipotesi più accreditata suggerisce che i buchi neri supermassicci non siano mai stati stelle, ma che nell’universo primordiale la materia cosmica si sia accumulata in quantità tali da diventare automaticamente un buco nero al momento del collasso gravitazionale. Questa teoria è considerata più probabile di altre ipotesi, come quella basata sulla fusione di due o più buchi neri.

Come afferma Natarajan, la scoperta di un buco nero con una massa almeno 10 milioni di volte superiore a quella del Sole e formatosi solo 470 milioni di anni dopo il Big Bang suggerisce che questi corpi celesti sono nati in un momento antecedente alla morte delle prime stelle, raggiungendo dimensioni titaniche ancor prima della formazione delle galassie.

I buchi neri supermassicci svolgono un ruolo cruciale nella stabilizzazione dei sistemi stellari che li circondano. La loro influenza gravitazionale e la loro capacità di accumulare materia ed emettere radiazioni continuano a essere oggetto di studio da parte degli scienziati.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired en español.

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La spettacolare foto del telescopio James Webb nella Grande Nube di Magellano

Author: Wired

Combinando i dati di del telescopio James Webb nel vicino infrarosso e nel medio infrarosso, gli astronomi possono fare un censimento più completo delle stelle e delle protostelle di questa regione dinamica. I risultati hanno implicazioni per la nostra capacità di comprendere le galassie che esistevano miliardi di anni fa, durante un’epoca dell’universo nota come ‘mezzogiorno cosmico’, quando la formazione stellare era al suo picco e le concentrazioni di elementi pesanti erano più basse“, ha spiegato la Nasa.

In passato la Grande Nube di Magellano era stata fotografata con un altro strumento del telescopio James Webb il...

In passato, la Grande Nube di Magellano era stata fotografata con un altro strumento del telescopio James Webb, il Near-Infrared Camera (Nasa).

La Lmc è una delle poche galassie visibili a occhio nudo nell’emisfero meridionale e compare nella documentazione astronomica persiane a partire dall’anno 964. L’ammasso stellare prende il nome dall’esploratore portoghese Ferdinando Magellano. Secondo alcuni storici, fu lui a informare l’Occidente dell’esistenza di questa struttura nel cielo dell’emisfero meridionale. Per decenni, la Grande Nube di Magellano è stata considerata la galassia più vicina alla Via Lattea. Tuttavia, nel 1994, la Galassia nana ellittica del Sagittario le ha tolto il titolo. Oggi, è la Galassia Nana Ellittica del Cane Maggiore a detenere il record di vicinanza, a 25mila anni luce dal sistema solare.

La Nube di Magellano è un oggetto di grande interesse per gli astronomi che cercano di studiare il processo di formazione stellare. In questo senso, la galassia è in una fase di intensa attività ed è piena di protostelle e gas in formazione. La comunità scientifica la descrive come un “tesoro astronomico“, che ospita oggetti e strutture di varia natura, tra cui almeno 60 ammassi globulari, 400 nebulose planetarie e 700 ammassi aperti, senza contare le stelle più giovani.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired en español.

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Google, l’erroraccio del chatbot Bard che è costato 100 miliardi in Borsa

Author: Wired

Ciò che ha fatto cadere in errore Brad è stata una scarsa comprensione logico grammaticale delle informazioni trovate sul web, che quindi non si dimostra all’altezza delle aspettative. Infatti, come ha sottolineato su Twitter Bruce Macintosh, direttore degli osservatori dell’università della California e tra i primi a fotografare un esopianeta da terra, il chatbot avrebbe confuso la frase “la prima foto di un esopianeta scattata dal telescopio spaziale James Webb” con “la prima foto di un esopianeta è stata scattata dal telescopio spaziale James Webb”.

Un fraintendimento più facile da comprendere in inglese, per la forma quasi identica delle due sentenze, e che ha portato drammaticamente fuori strada un intelligenza artificiale progettata proprio per essere in grado di non cadere in questi errori di distrazione tipicamente umani. Dopo aver ricevuto la segnalazione dell’errore, come riporta Reuters, Google ha dichiarato come questo problema sottolinei la necessità di proseguire con nuovi aggiornamenti del sistema di Bard.

“Questo fatto evidenzia l’importanza di un rigoroso processo di verifica, che stiamo avviando questa settimana con il nostro team di tester fidati – ha dichiarato un portavoce di Google -. Combineremo i feedback esterni con i nostri test interni, per assicurarci che le risposte di Bard soddisfino un elevato livello di qualità, sicurezza e accuratezza con le informazioni del mondo reale”.

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La Nasa costruirà un nuovo super-telescopio per cercare vita aliena

Author: Wired

Mentre James Webb, il telescopio più complesso mai costruito, continua a inviarci informazioni preziosissimeimmagini mozzafiato dello Spazio profondo, la Nasa pensa già alla costruzione dei suoi successori. Il primo a essere lanciato, in ordine di tempo, dovrebbe essere il Nancy Grace Roman, o Wide Field Infrared Survey Telescope (Wfirst), sensibile alla luce infrarossa e dedicato, tra le altre cose, allo studio dell’energia oscura. Il secondo – e questa è la notizia di oggi, dato che se ne è appena parlato nel corso dell’ultimo congresso della American Astronomical Society – sarà lo Habitable Worlds Observatory (Hwo), un telescopio che dovrebbe vedere la luce (in tutti i sensi) intorno al 2040 e il cui obiettivo principale, come suggerisce il nome, sarà la ricerca della presenza di eventuali forme di vita su esopianeti simili alla Terra.

Al momento, purtroppo, le informazioni sono ancora poche, soprattutto perché non è stato ancora allocato un budget per il progetto. Quello che si sa è che, come il James Webb, anche lo Hwo si “parcheggerà” a L2, il punto lagrangiano a circa un milione e mezzo di chilometri dalla Terra. Nelle intenzioni dei progettisti, inoltre, dovrebbe essere aggiornato e riparato, se necessario, da robot costruiti all’uopo, il che gli potrebbe consentire di essere operativo per decenni, e addirittura di migliorare nel tempo. 

La raccolta delle idee

Ogni dieci anni, la Nasa, il Department of Energy e la National Science Foundation statunitensi conducono un sondaggio in cui chiedono a decine di esperti, divisi in commissioni e sottocommissioni, quali dovrebbero essere, secondo loro, le priorità della ricerca in astrofisica, e di quali telescopi (sia nello Spazio che a Terra) avrebbero bisogno per raggiungere gli obiettivi individuati. Il desiderio che è emerso con più forza dai sondaggi recenti è la “resurrezione” del programma Grandi Osservatori (Great Observatories), quello che ha permesso il lancio dello Hubble Telescope e di altri strumenti simili negli anni novanta e all’inizio degli anni duemila.

Gli ultimi sondaggi: James Webb e Nancy Grace Roman

Il terzultimo sondaggio, completato nel 2001, aveva indicato per l’appunto come priorità la costruzione del James Webb Space Telescope – cosa che si è effettivamente avverata, anche se con molti ritardi e una spesa molto superiore al previsto. Quello successivo, concluso nel 2010, aveva invece indicato la costruzione dello Wide Field Infrared Survey Telescope (WFIRST), intitolato all’astronoma Nancy Grace Roman e dedicato alla ricerca dell’energia oscura, il cui lancio, inizialmente previsto per il 2025, è stato per ora rimandato al 2027. Tutti questi ritardi e gli sforamenti di budget, raccontava Science nel 2018, hanno fatto nascere il sospetto che le proposte individuate in questo modo fossero “immature e poco realistiche”, generando, a detta di Robert Blandford, esperto della Stanford University e coordinatore del sondaggio del 2010, “un senso di frustrazione diffusa”.

I nuovi piani

Nell’ultimo sondaggio, quello avviato nel 2018, è stato chiesto agli esperti di indicare la loro priorità tra quattro progetti: il Large UV Optical Infrared Surveyor (Luvoir), un telescopio spaziale con uno specchio dal diametro di 15 metri, in grado di raccogliere 40 volte più luce rispetto a Hubble e che è sensibile, come suggerisce il nome, alle lunghezze d’onda nell’infrarosso; lo Habitable Exoplanet Observatory (HabEx), con uno specchio più piccolo ma corredato di una sorta di enorme “paralume”, delle dimensioni di un campo da calcio, per bloccare la luminosità delle stelle e consentire ai suoi strumenti di concentrarsi sugli esopianeti (che sono naturalmente molto meno luminosi) e cercare possibili tracce di vita; il Lynx Xray Observatory, un telescopio sensibile alla luce nelle frequenze dei raggi X, per studiare i buchi neri più antichi dell’Universo e comprendere quale sia il loro legame con i meccanismi di formazione ed evoluzione delle galassie; lo Origin Space Telescope, uno strumento mantenuto a circa 4 gradi sopra lo zero assoluto per studiare la radiazione infrarossa emessa dalle nubi di gas freddo e di polvere da cui nascono pianeti e stelle.

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Universo, forse abbiamo trovato le prime galassie

Author: Wired

Gli scienziati hanno appena annunciato di aver individuato quelle che potrebbero essere alcune delle prime galassie formatesi nell’universo, una scoperta incredibile resa possibile dal James Webb space telescope (Jwst), il nuovo fiore all’occhiello della Nasa.

Si tratta del primo grande campione di galassie candidate al di fuori della portata del telescopio spaziale Hubble“, ha dichiarato il 10 gennaio l’astronomo Haojing Yan durante una conferenza stampa in occasione della riunione dell’American astronomical society a Seattle. Yan, che lavora alla University of Missouri, è l’autore principale di un recente studio sulle prime osservazioni del Jwst. Dal momento che è in grado di spingersi più lontano nello spazio profondo rispetto al suo predecessore Hubble, in sostanza il nuovo e più sensibile telescopio della Nasa può scrutare anche più indietro nel tempo. Alcune delle 87 galassie che gli astronomi hanno individuato con il Jwst potrebbero risalire a circa 13,6 miliardi di anni fa, appena 200 milioni di anni dopo il Big bang. È in quel periodo che le galassie emettevano la luce che vediamo oggi, anche se rispetto ad allora quei sistemi di stelle, gas e polveri sono cambiati radicalmente, ammesso che esistano ancora.

Nonostante in passato gli scienziati abbiano già studiato altre galassie lontane che risalgono a quando l’universo era ancora giovane, le scoperte di Yan e dei suoi colleghi potrebbero battere questi record di qualche centinaio di milioni di anni. Al momento, tuttavia, quelle scoperte dal Jwst sono tutte considerate “galassie candidate“, il che significa che la loro data di origine deve ancora essere confermata.

Datare una galassia

La datazione di una galassia può rivelarsi un compito impegnativo, che comporta misurare il cosiddetto il redshift (letteralmente “spostamento verso il rosso”), ovvero quanto la luce che emette si sposta verso le lunghezze d’onda rosse maggiori, un parametro che indica agli astronomi la velocità con cui la galassia si sta allontanando da noi nell’universo in rapida espansione. Questo dato a sua volta segnala agli astronomi la distanza della galassia dalla Terra o, più esattamente, la distanza che i fotoni delle sue stelle hanno dovuto percorrere alla velocità della luce prima di raggiungere un telescopio spaziale vicino alla Terra, come appunto il James Webb space telescope. La luce delle stelle della più lontana tra le nuove galassie individuate dal Jwst potrebbe essere stata emessa 13,6 miliardi di anni fa, probabilmente poco dopo la sua formazione.

Le stime sulle distanze delle nuove galassie dovranno essere confermate misurando la luce che emettono nello spettro elettromagnetico, individuando così le loro “firme” uniche. Tuttavia, Yan si aspetta che l’origine di molte delle nuove galassie risalga effettivamente agli albori del cosmo: “Scommetto venti dollari e una birra media che la percentuale di successo sarà superiore al 50 per cento”, ha dichiarato l’astronomo.

Come abbiamo trovato le nuove galassie

Il team di Yan ha fotografato queste galassie usando la NirCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul Jwst. Per stimare le distanze, gli astronomi hanno utilizzato una tecnica standard, chiamata dropout: dal momento che l’idrogeno gassoso che circonda le galassie assorbe la luce a una particolare lunghezza d’onda, le lunghezze d’onda a cui un oggetto può essere o meno avvistato mettono dei paletti circa la sua distanza plausibile. Queste 87 “galassie candidate” appaiono come una massa indistinta che può essere rilevata solo all’interno delle lunghezze d’onda maggiori (e quindi più rosse) individuabili dalla NirCam, il che potrebbe significare che sono molto distanti e quindi molto antiche.