Categorie
Tecnologia

Il nostro Sistema solare potrebbe essere distrutto da una stella di passaggio?

Author: Wired

Quanto tempo rimane alla nostra specie sul pianeta Terra? La risposta ovviamente dipende in primo luogo da noi: come tratteremo il nostro pianeta nei prossimi secoli (e millenni) deciderà quanto a lungo continuerà a risultare ospitale per i sapiens e le altre forme di vita a cui siamo abituati. Se togliamo l’uomo dall’equazione, invece, si stima che la Terra abbia ancora più o meno un miliardo di anni di fronte a sé: a quel punto il Sole aumenterà la sua luminosità quel tanto che basta (circa di un 10% rispetto ad oggi) per far evaporare gli oceani, e spazzare via ogni forma di vita basata sul carbonio. È l’unico modo in cui può finire la storia del nostro pianeta? No di certo. E un team di ricercatori francesi e americani ha appena indagato una delle alternative più estreme: la possibilità che una stella di passaggio si avvicini abbastanza al Sistema solare da causare la distruzione di uno o più pianeti, Terra inclusa. Ecco cosa hanno scoperto.

Vagabondi dello spazio

Le cosiddette “rogue star”, letteralmente stelle vagabonde (anche conosciute come stelle intergalattiche) sono astri sfuggiti all’attrazione gravitazionale della propria galassia di provenienza, che si aggirano in modo caotico e imprevedibile per l’Universo. Secondo gli autori dello studio – che dovrebbe presto essere pubblicato sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society – un simile corpo celeste di passaggio dovrebbe avvicinarsi entro le cento unità astronomiche (au) dal nostro Sole per provocare effetti tangibili sulle orbite del sistema solare. E le probabilità che qualcosa di simile avvenga nell’arco del prossimo miliardo di anni per una stella come la nostra sarebbero circa dell’1%. Per quanto remota, è una probabilità più concreta di quanto non lo sia il rischio che altri fenomeni, interni al Sistema solare, possano influenzare in modo significativo l’orbita terrestre nello stesso arco di tempo, che come dicevamo è l’orizzonte temporale massimo a disposizione della vita sul nostro pianeta.

Lo studio

Tanto vale scoprire cosa potrebbe succederci, insomma. E per questo, i quattro autori dello studio, ricercatori del Laboratoire d’Astrophysique de Bordeaux e del Planetary Science Institute di Tucson, Florida, hanno deciso di effettuare delle simulazioni. Molte simulazioni: 12mila in totale, per altrettanti scenari in cui è stato valutato il passaggio di stelle con masse e velocità differenti, scelte in analogia con quelle che si possono trovare nei nostri dintorni galattici. Guardando ai risultati, il primo a saltare agli occhi è che anche nella remota possibilità di un incontro “ravvicinato”, abbiamo ottime chance di sopravvivenza: “Anche se una stella passasse a meno di 100 au dal Sole, c’è comunque un’elevata probabilità che tutti e otto i pianeti del Sistema solare sopravvivano”, si legge a proposito nello studio.

Nel 95% dei casi, infatti, il passaggio di una stella vagabonda non farebbe perdere al Sistema solare nessuno dei suoi pianeti. È chiaro: che i pianeti sopravvivano non significa che rimangano uguali a come li conosciamo, o che la Terra continui a trovarsi nelle condizioni orbitali perfette per sostenere la vita, come capita al momento. Ma quanto meno, la conformazione del Sistema solare rimarrebbe più o meno la stessa.

Parlando degli scenari più remoti, che prevedono la perdita di uno o più pianeti in seguito al passaggio della stella vagabonda, i rischi sembrano diversi in base a dove ci troviamo. Per Mercurio, ad esempio, è emerso che il pericolo più grande è quello di precipitare contro la nostra stella (le probabilità si assestano attorno al 2,54%), circostanza che non dovrebbe stupirci, visto che si tratta del pianeta più vicino in assoluto al Sole. Anche per Marte, il rischio principale è quello di scontrarsi contro il Sole (1,21%), mentre Venere ha più probabilità di schiantarsi contro uno degli altri sette pianeti (1,17%). Urano, Nettuno e Saturno, i tre pianeti più esterni, corrono invece il rischio di essere espulsi dal Sistema solare, e trovarsi così a vagare nello spazio interstellare. La Terra, infine, potrebbe finire distrutta nella collisione con un altro pianeta (0,48%), o precipitare invece nella nostra stella (0,24%).

Una Terra vagabonda

Guardando agli scenari meno probabili, la ricerca dimostra che è possibile (ma assai improbabile) che il passaggio di una stella intergalattica espella il nostro pianeta verso le zone più esterne del Sistema solare, fino a raggiungere la nube di Oort, quella nube sferica di comete che si ritiene orbiti a circa ventimila unità astronomiche di distanza dal Sole, dove la sopravvivenza del pianeta sarebbe a rischio. O ancora, e forse è lo scenario più intrigante, la Terra potrebbe essere catturata dalla stella intergalattica, e inizi a seguirla nei suoi vagabondaggi. Esiste persino qualche probabilità, per quanto infinitesima, che in una circostanza simile la Terra venga nuovamente a trovarsi in una zona abitabile (quella della nuova stella), e possa quindi continuare ad ospitare acqua liquida e forme di vita sulla sua superficie, trasportandole nel suo nuovo viaggio attraverso, e oltre, la nostra galassia.

Categorie
Economia Tecnologia

La prima costellazione privata di satelliti made in Italy

Author: Wired

L’Italia si fa spazio nello Spazio. È iniziata l’avventura di Apogeo Space, la startup bresciana che vuole realizzare la prima costellazione privata di satellitimade in Italy, appunto – dedicata all’Internet of Things (IoT): partiti l’11 novembre scorso a bordo del Falcon 9 di SpaceX, i primi 9 pico-satelliti sono stati da poco rilasciati e trasportati dal taxi spaziale di D-Orbit (altra impresa di logistica spaziale nostrana) e adesso si stanno mettendo in posizione. Se tutto va bene, la costellazione di 96 pico-satelliti sarà completata nel 2027 e dovrebbe garantire un servizio di telecomunicazioni globale, continuo e a basso costo.

L’internet delle cose

L’Internet delle cose (o Internet of Things, IoT) è una realtà ben presente nelle nostre vite. Sono orologi, veicoli, elettrodomestici e molti altri dispositivi elettronici smart, che raccolgono dati e si connettono alla rete perché noi – gli interessati – possiamo, per esempio, trovarli facilmente e accedere alle loro informazioni. Rientrano in questa dimensione i gps per sapere dov’è il nostro animale domestico così come le case domotiche e lo smart metering (cioè i sistemi di telelettura e telegestione dei contatori di acqua, gas ed energia elettrica), fino ad applicazioni per il monitoraggio dei ghiacciai o delle foreste per la prevenzione degli incendi, per il tracking continuo dei carichi marittimi e per l’agricoltura 4.0 (Smart Agriculture, AgriTech, FoodTech). Quest’ultima è una realtà ancora in divenire, ma che si presenta come una risposta concreta alla sfida alimentare del futuro, promettendo di semplificare le pratiche agricole e zootecniche e renderle più efficienti e sostenibili grazie al controllo da remoto e all’automazione.

Un mercato in crescita

Quello dell’Iot, dunque, è un mercato in espansione. L’interesse nel settore si vede anche dal volume degli investimenti. “Dal 2014 al 2022 – riferisce Daniele Lubelli dell’istituto di ricerca tedesco Statistica – c’è stata una crescita impressionante sia in termini di investimenti che di operazioni completate”. Il contesto europeo è promettente, attrae sia investitori europei che extraeuropei, e le risorse al momento sono distribuite in modo abbastanza uniforme lungo tutta la catena del valore del settore spaziale.

Per quanto riguarda l’Italia, secondo i dati dell’Osservatorio Internet of Things della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2022 c’è stata una crescita del 13% rispetto al 2021, per un ammontare complessivo di 8,3 miliardi di euro: gli oggetti connessi a fine anno erano 124 milioni (cioè circa 2 per abitante). Un buon numero, anche se non elevatissimo – commenta Mattia Cerutti dell’Osservatorio IoT – , segno che l’interesse per le applicazioni della tecnologia è alto ma che c’è ancora lavoro da fare. Soprattutto in termini di offerta e miglioramento dei servizi: solo una percentuale contenuta dei dispositivi IoT oggi riesce a essere intercettata in modo continuativo dai servizi satellitari.

La costellazione italiana

La costellazione di satelliti di Apogeo Space ha proprio questo fine: offrire un servizio di telecomunicazioni globale continuo, a costi contenuti. Per riuscirci, spiega il Ceo e co-fondatore Guido Parissenti, si è scelto di puntare sulla miniaturizzazione della tecnologia dei satelliti. Dopo i primi “esperimenti” (nel 2021-22 sono stati messi in orbita due piccoli dimostratori sperimentali), l’azienda bresciana ha disegnato, progettato e realizzato dei satelliti che si potrebbero definire tascabili, visto che misurano 10x10x3 cm e pesano meno di 1 Kg ciascuno. “In questo modo, con un investimento relativamente ridotto, siamo in grado di mandare in orbita molti pico-satelliti che, una volta in posizione (a oltre 500 chilometri di quota, nella bassa orbita terrestre, nda) e completamente operativi, saranno in grado di coprire l’intero globo in modo continuativo”, riferisce Parissenti. In altre parole, ogni punto della Terra in cui si trovi un sensore connesso alla rete di pico-satelliti sarà sempre connesso e contattabile in tempo reale o quasi.

Categorie
Tecnologia

È stato scoperto un sistema solare “perfetto” a 100 anni luce dalla Terra

Author: Wired

A circa 100 anni luce da noi, nella costellazione della Chioma di Berenice, c’è un sistema solare “perfetto”. A scoprirlo è stato un team di ricerca internazionale coordinato dall’Università di Chicago che, grazie ai dati forniti dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess) della Nasa e dal Characterising Exoplanet Satellite (Cheops) dell’Esa, ha osservato come in questo nuovo sistema, composto da 6 esopianeti che orbitano attorno alla stella HD110067, regni l’armonia. Condizione, quindi, che lo rende un modello ideale per aiutarci a capire meglio come si formano i pianeti, come si evolvono e se possano o meno ospitare forme di vita. Lo studio, a cui l’Italia ha collaborato con gli osservatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica a Padova, Pino Torinese e Catania, l’Università di Padova e l’industria, con Leonardo, è stato pubblicato su Nature.

Perfetto, in che senso?

Differentemente dal nostro Sistema solare, creato da violentissime collisioni che hanno portato a mix di pianeti di diverse dimensioni, dove giganti come Giove si trovano accanto a piccoli mondi come il nostro, per il nuovo sistema solare le cose non sarebbero potute andare più diversamente. È composto, infatti, da 6 pianeti, tutti più o meno della stessa dimensione, che sono cambiati pochissimo da quando si sono formati miliardi di anni fa. “È l’ideale per studiare come vengono creati i pianeti, perché questo sistema solare non ha avuto gli inizi caotici del nostro ed è rimasto indisturbato fin dalla sua formazione”, ha commentato l’autore dello studio Rafael Luque, definendolo “il sistema solare perfetto”.

La danza dei pianeti

Non solo: i pianeti orbitano attorno alla propria stella in totale sincronia. Si muovono, infatti, con un ritmo così preciso, in un fenomeno che gli astronomi chiamano risonanza orbitale: il pianeta più interno compie tre orbite attorno alla stella per ogni due del pianeta successivo (risonanza 3/2). Uno schema che si ripete tra i quattro pianeti più interni, mentre per quelli più esterni lo schema è di quattro orbite per ogni tre del pianeta successivo (risonanza 4/3). “Pensiamo che solo l’1% circa di tutti i sistemi rimanga in risonanza, e ancora meno possa mostrare una catena di pianeti in tale configurazione”, ha spiegato Luque. Ecco perché è speciale, aggiunge l’esperto: “ci mostra la configurazione originaria di un sistema planetario che è sopravvissuto intatto”.

La danza dei pianeti è così tanto precisa da poter essere messa in musica, come si evince dal video qui sotto.

Categorie
Tecnologia

Il buco nero supermassiccio più lontano di sempre

Author: Wired

Un gruppo di astronomi e astrofisici ha scoperto il buco nero supermassiccio più distante mai osservato ai raggi X. Il corpo celeste risale agli albori dell’universo e la sua identificazione potrebbe aiutarci a spiegare l’origine di altre strutture cosmiche simili, come quella al centro della Via Lattea.

La scoperta

Il team ha combinato gli strumenti di due tra i telescopi più potenti al mondo, il telescopio a raggi X Chandra e il James Webb Space Telescope (Jwst), trovando la “firma” di un buco nero attivo che si è formato 470 milioni di anni dopo il Big Bang e si trova nella galassia UHZ1 a 13,2 miliardi di anni luce dalla Terra, quando l’universo aveva solo circa il tre per cento della sua età attuale.

L'ammasso di galassie Abell 2744 dietro cui si trova UHZ1 e i primi piani della galassia e del buco nero

L’ammasso di galassie Abell 2744 dietro cui si trova UHZ1, e i primi piani della galassia e del buco nero (NASA/CXC/SAO/L. Frattare e K. Arcand)

Considerando la luminosità e l’energia dei raggi X provenienti da UHZ1, gli astronomi stimano che il buco nero abbia una massa compresa tra 10 e 100 milioni di volte quella del sole, che secondo la Nasa sarebbe simile a quella complessiva di tutte le stelle della galassia.

Riteniamo che questo sia il primo rilevamento di un buco nero ‘fuori scala’ [in inglese, ‘outsize black hole’, Ndr] e che rappresenti la migliore prova mai ottenuta finora del fatto che alcuni buchi neri si formano da massicce nubi di gas – ha dichiarato Priyamvada Natarajan, astrofisica all’Università di Yale e co-autrice dello studio –. Stiamo osservando per la prima volta la breve fase in cui un buco nero supermassiccio ha all’incirca la stessa massa delle stelle nella sua galassia”.

Come nascono i buchi neri supermassicci

I buchi neri si formano a partire dal collasso gravitazionale di stelle massicce alla fine della loro vita. Ma esistono anche buchi neri supermassicci, la cui massa è milioni di volte superiore a quella di una stella convenzionale. Sebbene questi corpi cosmici si trovino generalmente al centro delle galassie, non c’è ancora un consenso sulla loro origine.

L’ipotesi più accreditata suggerisce che i buchi neri supermassicci non siano mai stati stelle, ma che nell’universo primordiale la materia cosmica si sia accumulata in quantità tali da diventare automaticamente un buco nero al momento del collasso gravitazionale. Questa teoria è considerata più probabile di altre ipotesi, come quella basata sulla fusione di due o più buchi neri.

Come afferma Natarajan, la scoperta di un buco nero con una massa almeno 10 milioni di volte superiore a quella del Sole e formatosi solo 470 milioni di anni dopo il Big Bang suggerisce che questi corpi celesti sono nati in un momento antecedente alla morte delle prime stelle, raggiungendo dimensioni titaniche ancor prima della formazione delle galassie.

I buchi neri supermassicci svolgono un ruolo cruciale nella stabilizzazione dei sistemi stellari che li circondano. La loro influenza gravitazionale e la loro capacità di accumulare materia ed emettere radiazioni continuano a essere oggetto di studio da parte degli scienziati.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired en español.

Categorie
Tecnologia

Perché il cielo notturno è buio?

Author: Wired

Nel 1823, l’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers pose una domanda che diede del filo da torcere agli scienziati per decenni. Se l’universo è infinito, perché il cielo notturno non è illuminato? La domanda è nota ancora oggi come “paradosso di Olbers”, anche se non si tratta più di una domanda irrisolta.

Vediamo innanzitutto le basi della questione. Una stella è come una gigantesca lampada che emette luce ovunque. Il nostro Sole è una di queste. In un punto della Terra è notte se non è rivolto verso il Sole. In quel momento non vediamo la luce della nostra stella perché il corpo della Terra la nasconde. Ma se ci sono milioni e milioni di stelle e ognuna di esse è come una lampada, perché non riempiono il cielo notturno con la loro luce? Inoltre, se l’universo è infinito, allora dovrebbe accadere che, ovunque noi puntiamo, stiamo puntando una stella. Dov’è finita la loro luce?

Paradoja de Olbers

Paradoja de OlbersKmarinas86 / CC BY-SA 3.0

Il paradosso

Il paradosso di Olbers era problematico perché, nel suo approccio, presupponeva alcune ipotesi che si sono rivelate non essere del tutto vere. La prima è l’infinità dell’universo. Ad oggi, non abbiamo prove evidenti che l’universo sia spazialmente finito. Anzi, le prove che abbiamo (anche se non sufficienti per essere sicuri) indicano che è infinito. Ma le coordinate spaziali non sono le uniche dimensioni della realtà. C’è anche il tempo e, proprio riguardo al tempo, sappiamo che l’universo è limitato, almeno nel passato. In altre parole, non è sempre esistito. Nei primi istanti dopo il Big Bang, l’universo era così denso che nemmeno i fotoni (particelle di luce) potevano propagarsi ed era quindi buio. La prima luce è stata in grado di muoversi nello spazio circa 13,7 miliardi di anni fa (ne abbiamo un’immagine eccellente: il fondo cosmico a microonde). La luce ha una velocità finita di quasi 300.000 chilometri al secondo. È molto veloce, sì, ma non è istantanea. Quando un oggetto emette luce, non illumina immediatamente l’ambiente circostante. La luce proveniente dal Sole, ad esempio, impiega circa 8 minuti per raggiungere la Terra. Quindi, sebbene l’universo sia molto affollato e spazialmente infinito, ci sono molte, moltissime stelle la cui luce non ha avuto il tempo di raggiungerci fin dall’inizio.

Ora, ci sono molte stelle che si trovano nell’intervallo spaziale sufficiente a illuminarci (o che un tempo si trovavano in tale intervallo) la cui luce, tuttavia, non possiamo vedere. Ciò è dovuto al fenomeno noto come redshift. Tutte le radiazioni elettromagnetiche, compresa la luce, si muovono in onde. Pensate alle increspature che si formano in un lago quando lanciamo un sasso: hanno ripetizioni periodiche. La distanza tra due picchi si chiama lunghezza d’onda. Se nel suo percorso la lunghezza d’onda della luce emessa da un oggetto cambia diventando più ampia (se c’è più distanza tra le creste), diciamo che c’è un redshift. Se il redshift è sufficiente, l’onda entra nello spettro dell’infrarosso e diventa invisibile. Questo perché la luce, per essere percepita, deve rientrare in un certo intervallo di lunghezze d’onda (per l’uomo, la lunghezza dell’interponte della luce deve essere compresa tra 380 e 750 nanometri). Se la luce che riempie un certo spazio è nello spettro dell’infrarosso, allora quello spazio ci sembra buio.