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Setup Wars – Episode 121


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Energia

geotermia è una risorsa energetica utile alla riduzione delle emissioni di gas serra?

I dubbi sulla “naturalità” o meno della CO2 emessa dagli impianti geotermoelettrici. Due tesi a confronto: quella del prof. Riccardo Basosi dell’Università di Siena e quella dell’ing. Massimo Montemaggi, responsabile geotermia Enel Green Power. Fattibile la reinieizione dei gas nel sottosuolo?

Ultimamente la geotermia è sotto attacco: molti comitati locali la accusano di emettere sostanze pericolose per la salute, di rovinare il paesaggio e persino di causare micro terremoti.

Sotto questo fuoco di fila di accuse sono finite sia le centrali geotermiche “storiche”, soprattutto quelle dell’Amiata, nel sud della Toscana, che i nuovi progetti, presentati sia dall’ex monopolista Enel, che da imprese entrate in questo settore energetico dopo la fine del monopolio nel 2010.

Anche come risultato di questa ondata di diffidenza, come abbiamo recentemente illustrato, questa preziosa fonte energetica, di cui l’Italia è stata la prima ad accorgersi e di cui il nostro territorio è particolarmente ricco, cresce a passo di lumaca ormai da molti decenni.

Come detto le critiche contro la geotermia, in genere, ruotano intorno alla sua emissione di gas tossici, come l’idrogeno solforato, ma si tratta ormai in realtà di una accusa piuttosto datata, in quanto le centrali oggi in funzione, e ancora più le future, sono dotate di sistemi di abbattimento dei gas tossici che riducono la loro emissione a livelli tollerabili.

E, del resto, indagini epidemiologiche nelle aree geotermiche non hanno rilevato criticità particolari nella salute delle popolazioni locali, che possano essere associate alle emissioni delle centrali.

Tutto risolto, quindi?

Non proprio, c’è un altro e più subdolo aspetto che mette in discussione non tanto la salubrità della geotermia toscana, quanto il suo essere una risorsa energetica utile alla riduzione delle emissioni di gas che alterano il clima (indicati di seguito come CO2eq), che è poi la ragione per cui le centrali geotermiche possono vendere la propria energia a tariffe incentivanti omnicomprensive, più alte del prezzo medio di mercato.

Questo aspetto è stato sollevato nel 2014 dal professor Riccardo Basosi, chimico-fisico del’Università di Siena, in una ricerca pubblicata insieme al ricercatore indipendente Mirko Bravi sul Journal of Cleaner Production.

Usando dati ufficiali, di fonte Arpa Toscana, Basosi ha mostrato come le quattro centrali dell’Amiata fra il 2001 e il 2009, abbiano emesso, per ogni MWh prodotto, una quantità di gas in grado di alterare il clima, in gran parte CO2, mediamente maggiore di quella di una centrale a metano, e in alcuni casi vicini a quelli di una centrale a carbone.

Per esempio la centrale Bagnore 3, nel 2008 ha emesso 1.045 kg CO2/MWh, contro i 1060 di una media centrale a carbone.

Le quattro centrali amiatine nel periodo considerato hanno avuto mediamente emissioni di CO2 di 693 kg CO2eq/MWh, contro i 640 kg CO2 eq/MWh di una media centrale a metano.

«Le emissioni di CO2 dai siti geotermici variano molto a secondo della geologia del sottosuolo», precisa Basosi. «Ci siamo concentrati sull’Amiata proprio perché il problema delle emissioni di CO2 è lì particolarmente rilevante: basti considerare che quelle centrali producono l’11% dell’elettricità geotermica della Toscana, ma ben il 28% delle emissioni di CO2 da quella fonte».

Con emissioni climalteranti come queste, si chiede il professore senese, è giusto che queste centrali siano considerate fonti utili a contenere il cambiamento climatico?

«Io non sono assolutamente contrario alla fonte geotermica – dice Basosi – ma mi chiedo se in certi casi, come questo dell’Amiata, non sarebbe meglio adottare delle tecnologie, come la reinieizione dei gas nel sottosuolo, che minimizzino l’impatto da questa fonte».

Non sorprendentemente l’ingegnere Massimo Montemaggi, responsabile geotermia Enel Green Power, non è affatto d’accordo con le conclusioni di Basosi.

«Innanzitutto ricordiamo che la geotermia è riconosciuta come fonte rinnovabile e sostenibile, anche in senso climatico, da numerose ricerche scientifiche e dallo stesso IPCC, l’organismo Onu che si occupa di cambiamenti climatici».

Che poi le centrali geotermiche italiane emettano molta CO2, ricorda Montemaggi, è assolutamente inevitabile, visto che le rocce attraverso cui passano i fluidi geotermici sono per lo più carbonati, che, una volta dissolti nell’acqua, rilasciano biossido di carbonio.

«Ma questa emissione non è una esclusiva della geotermia: sono gli stessi territori “caldi”, dove vengono impiantate le centrali geotermiche, a rilasciare questo gas, da fonti termali e da infinite fratture nelle rocce, tanto che sono proprio le emissioni di CO2 a indicarci dove andare a cercare le risorse geotermiche. In altre parole, la CO2 delle nostre centrali è la stessa che il terreno emetterebbe comunque, non è assolutamente paragonabile a quella prodotta “artificialmente” bruciando i combustibili fossili».

Naturalmente Basosi tiene conto di questa “naturalitàdella CO2 emessa con la geotermia, ma il suo punto è che mentre in aree come quella di Larderello, anche prima delle centrali geotermiche la CO2 fuoriusciva abbondantissima dal terreno, attraverso soffioni, pozzi di fango ribollenti e altre vistose manifestazione geologiche, nell’area dell’Amiata, questa CO2 era pressoché bloccata nel sottosuolo e sarebbe stata rilasciata in tempi molto più lunghi, secoli o millenni, se non fosse stato per i pozzi geotermici che vanno a pescarla a migliaia di metri sottoterra.

In sintesi, se non fosse per la geotermia, la zona dell’Amiata emetterebbe molta meno CO2 di quello che fa oggi.

«A me questo non risulta», replica Montemaggi. «Basosi forse non considera l’intera area geotermica dell’Amiata, che ha centinaia di punti di emissione di acque e gas, anche a grande distanza dal vulcano spento. Per capire le quantità in gioco basti considerare che si stima che oggi le emissioni naturali di CO2 totali dall’area “calda” tirrenica fra Toscana e Lazio siano di 702 tonnellate ogni giorno, come dice il geofisico Francesco Frondini in un suo studio del 2008, contro le 50 emesse attualmente dai sei gruppi geotermici dell’Amiata: appena il 7% del totale».

E secondo Montemaggi la geotermia non solo non aumenta le emissioni naturali, ma può addirittura farle calare.

«Basti considerare Larderello 200 anni fa: una valle infernale quasi impossibile da attraversare per le emissioni spontanee di gas e acqua bollente. Da quando c’è la coltivazione geotermica le emissioni naturali sono drasticamente calate. L’effetto, dovuto alla generale riduzione della pressione del campo geotermico, provocata dall’estrazione di fluidi profondi, è tanto noto che in Cile, per questo motivo, ci hanno negato il permesso di fare una centrale geotermica a El Tatio, sulle Ande, perché temevano avrebbe fatto scomparire le emissioni naturali che attraggono tanti turisti».

Tutta la questione, quindi, ruota intorno a quante emissioni di CO2eq aggiuntive di quelle naturali la geotermia produce in territori molto ricchi di rocce calcaree, se in effetti ne produce realmente.

Se l’emissione di CO2eq delle centrali geotermiche, oggi dell’Amiata, domani in altri luoghi simili, supera quella che si aveva prima della loro installazione, esse in effetti aggiungono gas serra in atmosfera, contribuiscono al cambiamento climatico e non dovrebbero godere degli incentivi per combatterlo. Se invece la loro presenza non fa altro che sostituire le emissioni preesistenti nel bacino “caldo” su cui operano, allora anche in quel caso la fonte è climaticamente neutrale.

È questo tipo di determinazione su cui si dovrebbe decidere in futuro la concessione di incentivi per le centrali geotermiche, ma attendendo che si elaborino i, certo, non semplici metodi per ottenere delle stime precise di questo dato, viene da chiedersi se allora non sarebbe comunque il caso di seguire quanto suggerisce Basosi e reiniettare nel sottosuolo tutti i gas che escono con i fluidi geotermici, così da evitare ogni inquinamento e ogni aggiunta di gas climalteranti all’atmosfera.

«Guardi, si potesse fare, l’Enel lo avrebbe già fatto, anche solo per i ricchi incentivi previsti per queste tecnologie a “impatto zero” dal Ministero dello Sviluppo Economico. Il punto è che tecnicamente non si può fare: questi gas sono troppo abbondanti nei fluidi geotermici italiani, se li reiniettassimo non solo troverebbero presto il modo di fuoriuscire da qualche parte, ma finirebbero per rovinare il giacimento geotermico, creando una “bolla” alla sua sommità, che ostacolerebbe l’estrazione dei fluidi».

Eppure fuori d’Italia di impianti con reiniezione li avete realizzati, come quello in Germania, che va a pescare acqua a 150 °C a 4000 metri di profondità, scalda un fluido a basso punto di ebollizione per far girare le turbine, e poi viene completamente reimmessa nel sottosuolo.

«Sì, ma quello è un caso molto particolare di acqua quasi priva di gas disciolti: ripeto, nelle nostre aree geotermiche non è possibile trovare fluidi così privi di gas da consentire la loro reiniezione totale nel sottosuolo», spiega Montemaggi.

Sarà, ma 10 progetti per impianti di quel tipo sono stati presentati al MiSE, e molti di essi saranno realizzati proprio nelle aree geotermiche di Toscana, Umbria e Lazio.

«Lo so, e sono molto curioso di vedere come faranno a realizzare una cosa che, per noi di Enel, che abbiamo decenni di esperienza geotermica alle spalle, è tecnicamente non sostenibile».

Autore: redazione QualEnergia.it – Il portale dell’energia sostenibile che analizza mercati e scenari

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Tesla e AMD forse al lavoro su un chip per la guida autonoma

Tesla e AMD potrebbero essere al lavoro congiuntamente per sviluppare un chip dedicato alla gestione delle funzionalità di guida autonoma all’interno delle vetture della società di Elon Musk. Si tratta, per ora, di indiscrezioni non confermate da nessuna delle due parti. Secondo quanto si apprende Tesla avrebbe già ricevuto una serie di esemplari dei processori che sono già oggetto di una fase di test.

L’indiscrezione ha iniziato a circolare dopo che Sanjay Jha, CEO di Globalfoundries, ha menzionato Tesla come un esempio di società che lavora con i produttori di chip. GlobalFoundries ha successivamente emesso un comunicato negando che Jha abbia citato Tesla indicandolo come cliente della fonderia.

Le vetture realizzate da Tesla fanno attualmente uso di processori NVIDIA come elemento centrale dell’unità Autopilot. In precedenza Tesla si è rivolta a Mobileye (ora di proprietà di Intel), ma le due società hanno scisso i legami dopo che una vettura Tesla Model S equipaggiata proprio con chip Mobileye è stata coinvolta in un incidente con esito fatale sulle strade della Florida.

L’obiettivo di Tesla è quello di sviluppare un chip personalizzato, sia per non dover dipendere da produttori terzi (e controllare così i costi) sia per poter dare concretezza alle varie funzionalità che la società ha in mente per riuscire a centrare l’obiettivo della completa guida autonoma: un traguardo che Musk ha definito come raggiungibile nel 2019.

Autore: Le news di Hardware Upgrade

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Energia

Riciclo energetico: l’ex miniera d’oro diventa una “batteria”

ex miniera d'oro

(Rinnovabili.it) – Dall’oro alle energie rinnovabili. Il destino di un’ex miniera nel nord del Queensland, in Australia, è prossimo alla svolta verde. Il sito è stato scelto per realizzare un impianto idroelettrico a pompaggio, che funzionerà da “batteria” per l’energia solare. Il lavoro di riconversione è in mano alla Genex Power ed è parte integrante del Kidston Solar Project con cui la stessa società sta realizzando anche una vicina centrale fotovoltaica da 320 MW.

Il governo federale, attraverso l’Agenzia australiana per l’energia rinnovabile, ha fornito 8,9 milioni di dollari di finanziamenti per sostenere la costruzione. La prima fase è già partita e all’inizio di febbraio 2018 dovrebbero essere connessi alla rete elettrica già 50 MW solari. La potenza rimante sarà installata più avanti, assieme alla realizzazione dell’impianto idroelettrico a pompaggio da 250 MW. Genex sta finalizzando i finanzianti per avviare la seconda fase  ed è ormai prossima, fa sapere, a ricevere l’approvazione per un prestito dal fondo federale del Northern Infrastructure Facility.

>>Leggi anche Australia: da Tesla la batteria al litio più grande al mondo<<

Il sostegno federale è quasi scontato se si considera che il Governo sta cercando progetti alternativi con cui sostituire la centrale a carbone di Liddell, nel New South Wales. L’impianto termoelettrico è ormai prossimo alla pensione: la chiusura è prevista per il 2021, anche se il primo ministro Malcolm Turnbull spinge per una proroga. Il premier australiano è preoccupato, infatti, di un rialzo dei costi energetici una volta abbassata la saracinesca di Liddell.

AGL, la società che gestisce l’impianto, ha risposto a tali preoccupazioni pubblicando i risultati di report indipendente: estendere la vita della centrale a carbone fino al 2032 costerebbe ben 900 milioni di dollari. Una cifra spropositata.

>>Leggia anche Il futuro energetico dell’Australia? Tecnologicamente neutro<<

In questo caso l’accoppiata idro-fotovoltaico del Kidston Solar Project potrebbe fornire fino a un quarto dell’energia necessaria per coprire il termoelettrico in chiusura, e potrebbe farlo anche prima del 2021.

Non solo. Secondo gli esperti il settore dell’accumulo idroelettrico potrebbe cambiare per sempre il volto energetico australiano Il professore di ingegneria dell’ANU, Andrew Blakers, ha individuato oltre 22.000 siti a livello nazionale adatti allo storage a pompaggio e dove gli impianti possono essere realizzati rapidamente. Per Blakers finanziando anche solo una parte di queste centrali, l’Australia potrebbe passare al 100% di energia rinnovabile entro appena due decenni.

Autore: stefania Rinnovabili

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Atlantia, prezzo si appoggia a quota 27 euro. Per il Dax si avvicinano le elezioni di domenica

Immagine anteprima YouTubePiazza Affari consolida i rialzi e scambia ancora in trading range. L’indice FTSE Mib veleggia fra i supporti a 22.300 e le resistenze grafiche a 22.500 punti. Solo il breakout di quest’ultimo livello potrebbe favorire un nuovo impulso verso i target a 22.600 punti.

Atlantia: titolo in una fase delicata. Dal punto di vista grafico infatti il titolo potrebbe subire le pressioni di valutazioni troppo elevate. Dopo i massimi storici toccati la scorsa ottava è stata disegnata una candela ribassista che nel breve potrebbe influenzare le contrattazioni e portare ad un rapido test delle ex resistenze a 26,18 e 25,75 euro.

Il Dax si avvicina alle elezioni di domenica tentando di smarcarsi al rialzo da quota 12.500 punti. A mettere i bastoni fra le ruote a questo movimento dell’indice è la trendline disegnata con i low del 24 febbraio e 20 aprile scorso. Solo il breakout di questa linea di tendenza potrebbe favorire un nuovo spunto verso i primi target a 12.600 punti.

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Autore: redazione [email protected] Finanza.com Blog Network Posts