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Il primo campo di riso modificato con le tecniche di evoluzione assistita in Italia è stato distrutto

Author: Wired

La notte tra giovedì 20 e venerdì 21 giugno ha visto la distruzione completa del campo sperimentale di riso Tea presso l’azienda Cascina Erbatici, a Mezzana Bigli, in provincia di Pavia. Gli ignoti responsabili hanno manomesso la telecamera di sorveglianza, divelto la rete metallica di protezione e infine tagliato e sradicato le piantine. Questo campo, parte di un progetto pionieristico dell’Università degli Studi di Milano, rappresentava un passo avanti fondamentale nell’uso delle Tecniche di evoluzione assistita (Tea) per migliorare la resistenza delle colture ai patogeni e agli effetti del cambiamento climatico. La notizia è stata data dall’assessore regionale all’Agricoltura, Alessandro Beduschi.

Le Tecniche di evoluzione assistita (Tea) permettono di modificare geneticamente le piante senza l’uso di organismi geneticamente modificati (ogm). Queste tecniche consentono di ottenere piante più resistenti alle malattie e più adatte ad affrontare condizioni climatiche avverse, riducendo l’uso di pesticidi e fitofarmaci e ottimizzando l’uso dell’acqua. La sperimentazione a Mezzana Bigli mirava a testare la resistenza delle piante di riso al fungo Pyricularia oryzae, responsabile della malattia nota come ‘brusone’, una delle principali minacce per le coltivazioni di riso che può causare perdite produttive fino al 50% e che sono la ricchezza dell’area della Lomellina, nonché dell’Italia, primo produttore di riso a livello comunitario.

Il progetto pavese

Il campo di riso Tea nel Pavese rientrava nell’ambito del progetto RIS8imo, concepito per rendere le piante di riso resistenti al fungo Pyricularia oryzae attraverso modifiche genetiche precise e controllate, e rappresenta una rivoluzione per i biotecnologi vegetali. Come ha spiegato Vittoria Brambilla, docente di botanica generale all’Università Statale di Milano e animatrice del programma di ricerca, le varianti inattivate di tre geni associati alla suscettibilità al brusone sono state inserite nelle piante per migliorarne la resistenza.

La sperimentazione di RIS8imo ha ottenuto un lungo iter di approvazione da parte del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica e dell’Ispra, l’Istituto italiano per la protezione dell’Ambiente, essendo la prima sperimentazione in campo aperto di piante Tea autorizzata in Italia. Roberto Defez, biotecnologo del Cnr di Napoli, ha commentato i risultati preliminari positivi delle prove in laboratorio, che hanno mostrato una maggiore produttività senza l’uso di agrofarmaci. Per questo l’attacco al campo è ancora più grave, perché blocca sul nascere un importante esperimento scientifico.

Attacco alla scienza

Non parliamo di un atto vandalico, ma di un gesto criminale – ha dichiarato Beduschi -. Un atto che compromette una sperimentazione unica in Italia, avviata con uno sforzo politico e scientifico notevole. La distruzione di un piccolo campo di 28 metri quadri ha bloccato anni di studi applicati. Non ci sono commenti adeguati per condannare un gesto così incivile”.

Il senatore Luca De Carlo, presidente della Commissione Agricoltura del Senato, ha aggiunto: “Un gesto criminale, incivile e violento, segno di profonda ignoranza e frutto di una propaganda distorta. Tuttavia, non ci fermerà. Rilanceremo con maggiore forza perché la sfida di nutrire la nazione e produrre in modo sostenibile non può essere ostacolata da atti criminali”.

Maria Pia Abbracchio, pro rettrice vicaria della Statale di Milano con delega alla ricerca, ha sottolineato il danno causato non solo alla ricercatrice coinvolta e al suo progetto, ma all’intera comunità scientifica e ai cittadini. “Assistiamo a un rigurgito di violenza oscurantista e antiscientifica che non tollereremo. Questo episodio causa un danno incalcolabile, ma il lavoro dei nostri scienziati riprenderà con ancora maggiore convinzione e impegno”.

Vittoria Brambilla e Fabio Fornara, professori dell’Università degli Studi di Milano e responsabili della ricerca, hanno concluso: “Il campo sperimentale RIS8imo, sviluppato con le TEA, ha l’obiettivo di ridurre l’uso di fungicidi nell’ambito di un’agricoltura sostenibile e di qualità. Come scienziati pubblici, esprimiamo sconcerto e tristezza per questa violenza ingiustificata”.

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Il caporalato in Italia sfrutta 230mila lavoratori

Author: Wired

Il caso di Satnam Singh, 31enne bracciante di origini indiane della provincia di Latina morto dopo aver perso un braccio in un incidente sul lavoro, ha riacceso il dibattito sul caporalato in Italia. Come riporta Il Sole 24 Ore, nel nostro paese sono infatti quasi 230mila le persone che lavorano nelle campagne e che non sono titolari di contratti regolari di lavoro e, di conseguenza, di diritti correlati. Di questi, 55mila sono donne e il 30% è costituito da cittadini italiani o dell’Unione europea.

A conferma di questi dati, che coincidono con quelli dell’Istat, ci sono anche quelli dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, la sigla sindacale che segue il settore agricolo, che da anni si occupano di monitorare il caporalato e le agromafie nella penisola, e che sottolineano come oltre il 25% dei braccianti in Italia lavori in nero.

Paghe da fame

Come conferma il presidente dell’osservatorio Jean-René Bilongo, le paghe per i lavoratori a nero sono miserrime, “in media – racconta – 20 euro al giorno per una giornata di lavoro che va dalle 10 alle 14 ore”. C’è però anche “chi ne prende solo 10 di euro oppure nemmeno uno, a cui viene data dell’acqua, un panino e poi basta. E le donne vengono pagate il 20-30% in meno degli uomini”.

Tutto questo porta un giro d’affari difficilmente quantificabile, tanto che “anni fa – spiega ancora Bilongo – avevamo tentato un calcolo, ma non eravamo arrivati a niente”. È invece facile immaginare che l’evasione contributiva nel settore agricoltura possa essere “compresa – aggiunge – tra i 700 e 900 milioni di euro. In questa stima però non rientrano tutti gli anelli della filiera agroalimentare ma solo il primo, per questo sembra così bassa“.

Tornando al caso Singh, l’Agro pontino e la provincia di Latina risultano tra le aree nelle quali lo sfruttamento dei braccianti è più diffuso. La cronaca del 20 giugno, con sette arresti fra le province di Caserta e Napoli per intermediazione illecita di lavoratori di origine esterne all’Unione europea pagati due euro all’ora, restituiscono un radicamento di questa pratica che travalica i confini regionali. Il fenomeno è nazionale, e tocca la Capitanata foggiana come le campagne piemontesi di Saluzzo, il Ragusano e il Metapontino, il Fucino abruzzese e il Veneto. Oltre la metà delle 405 aree di caporalato diffuso censite dall’osservatorio presieduto da Bilongo è nel nord Italia.

Dopo la morte di Singh, Flai, Fai e Uila hanno chiesto la convocazione urgente di un tavolo tecnico ai ministri dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e del Lavoro, Marina Calderone, prontamente concesso il 21 giugno, chiedendo peraltro l’utilizzo dei 200 milioni previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per il superamento dei ghetti, rifiutato in passato da alcuni comuni italiani.

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Invecchiare il vino in mare è più sostenibile?

Author: Wired

Anche i profani sanno che un buon vino è invecchiato: ovvero lasciato riposare per mesi o anni in luoghi chiusi come le classiche cantine. Un’azienda italiana, Jamin Portofino UnderWaterWines, ha proposto qualcosa di radicalmente nuovo: l’affinazione dei vini sui fondali marini. L’azienda ha iniziato con tremila bottiglie di champagne qualche anno fa. Stipate a circa 50 metri di profondità dove la temperatura pressoché costante di 13-14° del mar Mediterraneo riproduce le condizioni di una vera e propria cantina. Non è stato un caso, ma il frutto di ricerca e sperimentazione condotta da ingegneri, fisici, biologi marini, sommelier, enologi e subacquei.

E siamo andati recentemente ad assaggiare i vini invecchiati in mare, o meglio “affinati” tramite cantinamento subacqueo. Ma questo metodo, certamente di grande impatto comunicativo, che tipo di impatto ha da un punto di vista ambientale? È più sostenibile invecchiare i vini in cantina o tramite l’affinamento subacqueo? Wired ha intervistato il fondatore di Jamin Emanuele Kottakhs, per approfondire – è davvero il caso di dirlo – questi aspetti di sostenibilità e altri elementi su questa nuova metodologia di invecchiamento.

Il vino subacqueo è più sostenibile?

Jamin ha già sperimentato e validato oltre 200 tipologie di vino e ha brevettato il proprio metodo, collaborando con privati e accademici dell’università di Genova e di Firenze. Le collaborazioni con enti di ricerca e l’elezione come prima cantina subacquea dell’area marina protetta di Portofino intendono mostrare attraverso i dati come la vita sott’acqua non subisca alcun impatto particolare. Anzi, l’azienda sottolinea i vantaggi in termini di sostenibilità del cantinamento subacqueo.

L’ambiente sottomarino è refrigerato naturalmente ed è ideale per le bottiglie: non c’è bisogno di climatizzatori, né di creare strutture terrestri isolate termicamente, con un notevole risparmio energetico. Si riduce quindi la necessità di magazzini e di consumo di suolo. E poi il risparmio di CO2 rispetto all’uso di una cantina in superficie:

“Non possiamo dare informazioni precise fino alla conclusione dello studio in corso, prevista per giugno 2024 ma posso dire che le prime impressioni confermano una riduzione di CO2 sui 12 mesi di oltre 70% tra affinamento condizionato in cantina terrestre (energivora) e quello praticato in acqua (comprensivo di trasporto su gomma e via mare per le operazioni)”

Emanuele Kottakhs, fondatore di Jamin Portofino UnderWaterWines

Questa stima è in via di definizione adottando un intero computo di life cycle assessment su tutte le procedure che riguardano i vini affinati sott’acqua rispetto a quelli conservati nelle cantine in superficie. Non è un processo semplice perché sono da considerarsi anche i costi di trasporto tramite mezzi motorizzati e su strada in superficie rispetto a quelli di immersione e prelievo dall’acqua delle casse di vino (cage). Così come è necessario attendere del tempo per verificare gli effetti a medio e lungo termine di una cage posta in fondo al mare. Ma al momento, gli esperti accademici che collaborano con Jamin confermano questa indicazione di Kottakhs.

C’è poi una questione legata all’impatto digitale di CO2. In generale per le immersioni dei vini sott’acqua sono impiegate gabbie modulabili, da circa 500 bottiglie ognuna. Di questa operazione se ne occupa un team specializzato di operatori marittimi e subacquei professionisti, che attraverso sistemi sensoristici consentono di tracciare tutto il percorso subacqueo e di monitorarlo costantemente. Ogni bottiglia ha applicato diversi microprocessori che seguono l’intero processo evolutivo singolarmente, raccogliendo circa 40mila informazioni per ogni singolo cantinamento subacqueo. Queste informazioni digitali rappresentano esse stesse fonte di CO2: è il tema della sostenibilità digitale di un prodotto. Al momento non ci sono dati che possano comparare l’impatto ambientale creato dai dati digitali da affinamento rispetto a quello dei dati digitali prodotto dalle cantine più moderne, sicuramente dotate di sensoristica avanzata. Sarà un tema da tenere in considerazione nel prossimo futuro, quando la sensibilità sul computo dell’impatto ambientale dei dati digitali sarà normalmente ricompreso nelle analisi di life cycle assessment anche a causa del grande impiego di sistemi di intelligenza artificiale.

I costi del cantinamento subacqueo

Se può apparire più sostenibile da un punto di vista ambientale, almeno secondo le prime rilevazioni portate avanti dall’azienda ligure, può essere utile valutare se l’affinamento abbia senso da un punto di vista economico. Calcolando il costo dell’operazione, non si può certo immergere una sola bottiglia, ma un determinato quantitativo e ci sono due operazioni da affrontare: immersione e prelievo. Queste mediamente costano complessivamente circa 25mila euro. “Non è un mero calcolo matematico però da dividere sul numero di bottiglie, in quanto il costo reale è condizionato da una molteplicità di fattori che prevedono una preventiva fase di studio del campione da immergere”, spiega Kottakhs. D’altra parte, un vino invecchiato sott’acqua ha un “costo medio di affinamento di una singola bottiglia durante la fase di produzione che varia dai 8,5 ai 18 euro a seconda dei servizi associati e dal quantitativo affidato”.

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Stiamo prosciugando le nostre riserve d’acqua sotterranea

Author: Wired

L’acqua che sgorga dai nostri rubinetti – ma anche quella che viene confezionata in inutili bottiglie monouso, o ancora quella che contribuisce a coltivare i prodotti che finiscono nel nostro frigorifero – proviene probabilmente dalle falde acquifere, come vengono definiti gli strati di materiale sotterraneo costituiti da rocce porose o da sedimenti come sabbia e ghiaia in grado di trattenere l’acqua. Quando piove, parte dell’acqua si raccoglie nei laghi e nei fiumi per poi defluire verso il mare, ma una parte penetra nelle profondità del suolo, accumulandosi in questi bacini sotterranei.

Per arrivare alle falde acquifere e idratare le nostre società, scaviamo pozzi in superficie o trivelliamo il terreno. A quanto pare, però, questa attività di estrazione ci è sfuggita di mano. Un nuovo allarmante studio pubblicato il 24 gennaio sulla rivista Nature ha esaminato i dati di 1700 sistemi acquiferi in tutto il mondo, scoprendo che nel 71% dei casi le acque sotterranee stanno diminuendo. Più di due terzi di queste falde acquifere si stanno riducendo di 0,1 metri all’anno, mentre il 12% sta registrando un tasso di 0,5 metri (per farvi un’idea della portata del fenomeno, pensate di avere un pozzo e scoprire che in un anno il livello dell’acqua è sceso di 0,1 metri). Come se non bastasse, in quasi un terzo delle falde acquifere questa tendenza sta accelerando, in particolare dove il clima è secco e l’agricoltura è molto presente.

Una minaccia globale

Le 300 milioni di osservazioni dal mondo reale in centinaia di migliaia di pozzi in giro per il mondo mostrano due risultati principali – spiega lo scienziato idrico Scott Jasechko dell’UC Santa Barbara, coautore della nuova ricerca –. Il primo è che la rapida diminuzione delle falde acquifere è purtroppo diffusa a livello globale, soprattutto nei luoghi aridi dove le colture sono estese. In secondo luogo, e cosa ancora più grave, la diminuzione delle acque sotterranee è accelerata negli ultimi quattro decenni in una porzione incredibilmente vasta della massa terrestre“.

In teoria le falde acquifere dovrebbero essere dei bacini d’acqua affidabili, chiusi al sicuro nel sottosuolo dove l’acqua non può evaporare facilmente. Rappresentano un cuscinetto di sicurezza da cui attingere nei momenti di bisogno, per esempio durante un’ondata di siccità. Ma dal Cile all’Afghanistan, passando da India e Cina e fino agli Stati Uniti, l’umanità sta svuotando queste riserve idriche a un ritmo insostenibile. Nelle mappe che vedete qui sotto, le zone di colore rosso intenso sono quelle che hanno riportato un calo delle acque sotterranee di un metro all’anno, mentre quelle in rosso chiaro sono interessate da un declino meno accentuato. Dove il clima arido sta diventando ancora più secco a causa dei cambiamenti climatici, le popolazioni hanno meno acqua in superficie e sono quindi costrette a estrarre in misura eccessiva dalle falde acquifere.

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Gli alimenti che rischiamo di perdere con la crisi del clima

Author: Wired

Inoltre, spostando le colture in aree più fresche – e quindi lontano dall’equatore – le si allontana dalle regioni in cui vivono la maggior parte delle persone che praticano l’agricoltura di sussistenza. “Ci sarà sicuramente una sproporzione tra i paesi più ricchi che ottengono climi più favorevoli alla coltivazione e i paesi del Sud del mondo che dipendono fortemente dalle coltivazioni per il loro reddito“, afferma Robert Fofrich, borsista post-dottorato dell’Institute of the Environment and Sustainability della Ucla –. Questo ha implicazioni non solo per la sicurezza alimentare regionale, ma anche per l’economia generale“.

Se le colture non possono essere spostate, un’altra possibilità è chiedersi se siano ancora quelle giuste per una determinata area. Anche se gli agricoltori sono sempre al lavoro per migliorare le piante esistenti, ci sono molte varietà che non vengono sfruttate, che in alcuni casi potrebbero avere caratteristiche preziose, come la resistenza ai parassiti o la tolleranza alla siccità.

Prendiamo per esempio il vino. La maggior parte delle varietà dipende da una serie limitata vitigni, e in Francia le “ricette” dei vini prodotti in regioni specifiche sono rigorosamente controllate da appositi enti. Ciononostante, nel 2021 l’Institut National de l’Origine et de la Qualité francese ha dato il via libera all’aggiunta di sei nuove cultivar – ovvero varietà ottenute tramite miglioramento genetico, sviluppate per far fronte al riscaldamento globale – all’elenco approvato delle varietà incluse nella denominazione di Bordeaux. Gli Stati Uniti e altre regioni produttrici di vino come l’Australia non hanno obblighi di questo tipo e questo dovrebbe consentire un maggiore sfruttamento di varietà di uva in grado di adattarsi al clima, commenta Elisabeth Forrestel, ecologista evolutiva e assistente alla cattedra di viticoltura presso la UC Davis.

Un’ulteriore possibilità è quella di trovare colture capaci di adattarsi meglio alle nuove condizioni climatiche. In esempio sarebbe quello del miglio negli Stati Uniti. Poiché ha un periodo di crescita breve, il miglio può essere inserito nella rotazione delle colture con frumento o soia, oltre a poter essere raccolto adattando le attrezzature per la soia, che gli agricoltori probabilmente già possiedono.

Quasi 10 anni fa Schnable e suo padre hanno fondato una startup che produce miglio, Dryland Genetics. La consideravano una risposta al continuo calo di precipitazioni e alla perdita di falde nel Midwest americano. In condizioni ideali, il miglio ha una rendita inferiore a quella del mais o del sorgo, ma in condizioni di siccità produce il doppio dei cereali per unità d’acqua.

Ma il miglio non è l’unica coltura che potrebbe rivelarsi più adatta alle nuove condizioni climatiche; i ricercatori e gli agricoltori del Midwest hanno anche sperimentato la coltivazione di semi oleosi come la colza e i girasoli, di piante come la canapa, di altri componenti del becchime e persino di un altro tipo di miglio, il perlato, che prospera a temperature che uccidono il polline di mais. Sono tutti esempi di come le aree di coltivazione si stiano trasformando, non solo a causa del cambiamento climatico, ma anche grazie agli sforzi di adattamento da parte dell’uomo.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.