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Il Big Mac non è più un’esclusiva di McDonald’s

Author: Wired

Parafrasando un noto claim della catena di fast food più famosa del mondo, d’ora in poi in Europa mangiare un Big Mac non succederà “solo da McDonald’s”. Come riporta l’agenzia Agi, la società di Chicago ha infatti perso una battaglia legale contro Supermac’s, più piccolo competitor irlandese, che aveva richiesto di far revocare il marchio in esclusiva della versione al pollo del panino al colosso statunitense nell’Unione europea.

Il caso

L’origine della vicenda risale al 2017, quando l’azienda irlandese aveva agito nella convinzione che il marchio Big Mac non fosse stato oggetto di un effettivo uso per i medesimi prodotti e servizi nell’Ue da parte di McDonald’s per un periodo ininterrotto di cinque anni. L’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (Euipo) aveva accolto la richiesta di Supermac, per poi tornare sui propri passi in appello, riaffermando la protezione del marchio per il prodotto.

Il 5 giugno il tribunale di Lussemburgo ha riformulato la decisione dell’Euipo, stabilendo che la catena statunitense non potesse rivendicare la protezione per la versione al pollo del suo hamburger, e lasciando vigente la tutela su quello originale al manzo. Nel dettaglio, McDonald’s non avrebbe dimostrato di avere effettivamente utilizzato il marchio Big Mac per le succitate tempistiche per quanto riguarda “panini al pollo”, “alimenti preparati con prodotti a base di pollame” e i servizi associati.

In una nota, McDonald’s ha preso atto della sentenza, pur ritenendo che essa “non pregiudichi il nostro diritto di utilizzare il marchio Big Mac”. L’amministratore delegato di Supermac Pat McDonagh si è invece dichiarato soddisfatto per una sentenza definita di “buon senso” che “rappresenta una vittoria significativa per le piccole imprese di tutto il mondo”. Anche perché “l’obiettivo originario della nostra richiesta di annullamento – scrive – era quello di far luce sull’uso prepotente del marchio da parte di questa multinazionale per soffocare la concorrenza”.

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La prima volta della carne coltivata in un supermercato

Author: Wired

C’è poi la questione del prezzo. Il pollo di Good Meat sarà venduto a 5,35 dollari (4,92 euro) per una porzione da 120 grammi di prodotto congelato, un prezzo molto più alto rispetto ai tagli simili venduti nei supermercati di Singapore. Sappiamo già che i prezzi elevati sono uno dei principali fattori che scoraggiano l’acquisto di carne vegetale e se gli acquirenti si dimostreranno tiepidi nei confronti del pollo di Good Meat, alcuni potrebbero sostenere che si tratti di un problema di prezzo e non di prodotto.

In un certo senso, tutto questo non ha importanza. È molto probabile che gli abitanti di Singapore non siano i veri destinatari del pollo di Good Meat: le persone che contano davvero in questo momento sono gli investitori.

Dopo un’ondata iniziale di entusiasmo, negli ultimi tempi le startup che si occupano di carne coltivata hanno avuto difficoltà a raccogliere fondi. Il settore ha raccolto 226 milioni di dollari nel 2023, contro i 922 milioni del 2022, un calo più accentuato rispetto alla generale flessione dei finanziamenti di rischio. Eat Just, in particolare, è invischiata in una dispendiosa causa con un ex fornitore ed è alla disperata ricerca di nuovi fondi per mandare avanti l’attività.

La spinta al settore è stata anche smorzata dai divieti alla carne coltivata, come quello approvato in Italia e più recentemente in Florida e Alabama. Lo sbarco dell’alimento in un negozio al dettaglio regala a Good Meat una storia positiva da raccontare agli investitori, che si spera possano garantire l’iniezione di liquidità di cui il settore ha bisogno per proseguire.

Il futuro della carne coltivata

Come nel caso dei primi ristoranti che negli Stati Uniti hanno inserito (per poco) la carne coltivata nei menu, non dobbiamo aspettarci che ogni nuovo passo porti alla fase successiva. Il settore sta ancora muovendo i primissimi passi e questi esperimenti servono sia ad attirare l’attenzione degli investitori che ad alimentare le aspettative dei consumatori.

È possibile che i nuovi filetti di pollo a base prevalentemente vegetale non suscitino l’entusiasmo di investitori e consumatori. Altre startup del settore stanno cercando di aggirare il problema dei costi imitando prodotti di fascia alta come il salmone per il sushi o le bistecche. Altre ancora puntano sull’originalità: è il caso della startup australiana Vow, che sta vendendo un parfait di quaglia coltivata in un ristorante di Singapore. Ma è ancora troppo presto per dire se e quale di questi approcci avrà successo.

Tutto questo non significa che la carne coltivata non abbia possibilità di imporsi. Semplicemente ci vorrà parecchio tempo per capire se l’industria è sulla buona strada per risolvere le principali difficoltà legate ai costi delle cellule animali prodotte e se la carne coltivata riuscirà a stupire i consumatori come non è riuscita a fare quella vegetale. Per le risposte a queste domande, dovremo aspettare ancora a lungo.

Questo articolo è precedentemente apparso su Wired US.

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20 abbinamenti assurdi da provare (o forse no) con la Nutella

Author: Wired

Il modo più diffuso di mangiare la Nutella è probabilmente spalmata sul pane (o a grandi cucchiaiate direttamente dal barattolo). Eppure c’è chi è convinto che la crema alle nocciole della Ferrero, che nel 2024 compie 60 anni di vita, si abbini bene praticamente con tutto.

Su internet e sui social, in particolare su TikTok, il dolce nato il 20 aprile 1964 ad Alba, in Piemonte, viene accostato a ogni tipo di ingrediente, da quelli più papabili a quelli più estremi: patatine, bacon, salmone… Spesso sono i follower che, nei commenti, suggeriscono le prove da fare, a volte con un pizzico di malignità. E a ogni combinazione immaginata segue, puntuale, l’assaggio con tanto di voto ed espressione della faccia (più o meno sorpresa, schifata o soddisfatta) annessa.

Abbiamo studiato gli abbinamenti più strani e a quanto pare più riusciti con la Nutella, in occasione dei suoi 60 anni. In attesa di assaggiare la Nutella vegana, da poco depositata da Ferrero.

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Gli alimenti che rischiamo di perdere con la crisi del clima

Author: Wired

Inoltre, spostando le colture in aree più fresche – e quindi lontano dall’equatore – le si allontana dalle regioni in cui vivono la maggior parte delle persone che praticano l’agricoltura di sussistenza. “Ci sarà sicuramente una sproporzione tra i paesi più ricchi che ottengono climi più favorevoli alla coltivazione e i paesi del Sud del mondo che dipendono fortemente dalle coltivazioni per il loro reddito“, afferma Robert Fofrich, borsista post-dottorato dell’Institute of the Environment and Sustainability della Ucla –. Questo ha implicazioni non solo per la sicurezza alimentare regionale, ma anche per l’economia generale“.

Se le colture non possono essere spostate, un’altra possibilità è chiedersi se siano ancora quelle giuste per una determinata area. Anche se gli agricoltori sono sempre al lavoro per migliorare le piante esistenti, ci sono molte varietà che non vengono sfruttate, che in alcuni casi potrebbero avere caratteristiche preziose, come la resistenza ai parassiti o la tolleranza alla siccità.

Prendiamo per esempio il vino. La maggior parte delle varietà dipende da una serie limitata vitigni, e in Francia le “ricette” dei vini prodotti in regioni specifiche sono rigorosamente controllate da appositi enti. Ciononostante, nel 2021 l’Institut National de l’Origine et de la Qualité francese ha dato il via libera all’aggiunta di sei nuove cultivar – ovvero varietà ottenute tramite miglioramento genetico, sviluppate per far fronte al riscaldamento globale – all’elenco approvato delle varietà incluse nella denominazione di Bordeaux. Gli Stati Uniti e altre regioni produttrici di vino come l’Australia non hanno obblighi di questo tipo e questo dovrebbe consentire un maggiore sfruttamento di varietà di uva in grado di adattarsi al clima, commenta Elisabeth Forrestel, ecologista evolutiva e assistente alla cattedra di viticoltura presso la UC Davis.

Un’ulteriore possibilità è quella di trovare colture capaci di adattarsi meglio alle nuove condizioni climatiche. In esempio sarebbe quello del miglio negli Stati Uniti. Poiché ha un periodo di crescita breve, il miglio può essere inserito nella rotazione delle colture con frumento o soia, oltre a poter essere raccolto adattando le attrezzature per la soia, che gli agricoltori probabilmente già possiedono.

Quasi 10 anni fa Schnable e suo padre hanno fondato una startup che produce miglio, Dryland Genetics. La consideravano una risposta al continuo calo di precipitazioni e alla perdita di falde nel Midwest americano. In condizioni ideali, il miglio ha una rendita inferiore a quella del mais o del sorgo, ma in condizioni di siccità produce il doppio dei cereali per unità d’acqua.

Ma il miglio non è l’unica coltura che potrebbe rivelarsi più adatta alle nuove condizioni climatiche; i ricercatori e gli agricoltori del Midwest hanno anche sperimentato la coltivazione di semi oleosi come la colza e i girasoli, di piante come la canapa, di altri componenti del becchime e persino di un altro tipo di miglio, il perlato, che prospera a temperature che uccidono il polline di mais. Sono tutti esempi di come le aree di coltivazione si stiano trasformando, non solo a causa del cambiamento climatico, ma anche grazie agli sforzi di adattamento da parte dell’uomo.

Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.

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Il governo ha ritirato il divieto sulla carne coltivata in laboratorio

Author: Wired

Cercando di non farlo sapere a nessuno, il governo Meloni ha ritirato il disegno di legge contro la cosiddetta carne sintetica. La misura sbandierata come d’avanguardia dal ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, è crollata prima ancora di poter vedere la luce a causa della sua incompatibilità con le norme dell’Unione europea. Problematica che avevano già sottolineato in un altro articolo su Wired.

Quando il disegno di legge per vietare la produzione e la commercializzazione di carne coltivata in laboratorio, questa la terminologia corretta, aveva ricevuto il via libera del Senato, Lollobrigida aveva celebrato la sua iniziativa come una vittoria per l’Italia. Ma la dura realtà del diritto europeo ha svelato l’inapplicabilità della norma anche allo stesso ministro, che si è trovato a doverne richiedere direttamente il ritiro con una comunicazione inviata quasi in segreto al ministero delle Imprese, che si occupa di queste pratiche, lo scorso 13 ottobre.

Il governo Meloni sa infatti benissimo che, in sede europea, il divieto Lollobrigida non sarebbe mai stato accettato, in virtù del procedimento di notifica Tris. Si tratta di una procedura normativa volta a prevenire la creazione di barriere commerciali all’interno del mercato dell’Unione europea, in base alla quale gli stati membri devono notificare alla Commissione europea tutti i progetti legislativi relativi alla commercializzazione e alla distribuzione dei beni di consumo. Nel caso un progetto legislativo si trovi in contrasto con le norme europee questo viene automaticamente stracciato, in virtù della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale.

Il divieto sulla distribuzione della carne coltivata sembra scontrarsi con le regole europee in almeno due casi. Come avevamo già raccontato, il divieto alla distribuzione della carne coltivata in Italia non avrebbe potuto essere istituito una volta che questi prodotti avessero ricevuto il via libera dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare. In più, si legge su Il Foglio, il disegno di legge sarebbe anche in contrasto con le norme comunitarie sulla concorrenza.