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Siccità, in alcuni comuni del Nord Italia arriva l’acqua con le autobotti

Author: Wired

Con la morsa della siccità che continua a stringere inevitabilmente l’area padana, e in particolare le regioni del Nord ovest, il 6,5% dei comuni in Piemonte e Lombardia sta già ricorrendo alle autobotti per assicurare l’approvvigionamento di acqua alla popolazione. Secondo l’osservatorio permanente dell’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po (Adbpo), il forte stress idrico già evidenziato a gennaio 2023 sta peggiorando, a causa della lunga assenza di precipitazioni in grado di colmare, anche parzialmente, il deficit ereditato dal 2022, l’anno più caldo mai registrato in Italia.

I macro-dati dell’ultimo mese, raccolti e rielaborati dallo staff tecnico di Adbpo, in collaborazione con le Agenzie regionali per la protezione ambientale (Arpa), dimostrano chiaramente uno stato di sofferenza all’interno dell’intero distretto del fiume Po. In particolare, le zone più colpite si trovano in Piemonte, nelle province di Cuneo, del Verbano-Cusio-Ossola e di Biella.

“Le precipitazione scarseggiano notevolmente – si legge sul rapporto di Adbpo – e il caso del Piemonte è il più problematico, con il dato ufficiale di Arpa Piemonte che conferma un’anomalia delle piogge fino a -85% esclusa l’area del cuneese, dove qualche nevicata ha ristorato leggermente il comprensorio”.

La situazione

Rispetto a gennaio, i comuni con il massimo livello di crisi idrica sono aumentati da 7 a 19, rendendo necessario l’impiego di serbatoi e autobotti nelle municipalità di Armeno (Novara), poi Cannero Riviera, Piedimulera, Pieve Vergonte, San Bernardino Verbano, in provincia di Verbania, Pettinengo, Strona, Valdilana Soprana , Zumaglia nel Biellese e infine, nella provincia di Cuneo, Demonte, Moiola, Roccabruna, Macra, Isasca, Venasca, Brossasco, Melle, Peveragno e Perlo.

In totale, la siccità estrema sta colpendo circa il 6% di tutti i comuni piemontesi e lombardi, mentre in altri 141 si registra una crisi idrica di livello 2, cioè media, a causa dell’abbassamento dei livelli delle sorgenti. Una situazione che sembra destinata a peggiorare molto presto, vista la continua assenza di precipitazioni e nevicate e l’avvicinarsi di primavera ed estate.

Il Po, che si è trovato e si trova in una condizione di sofferenza “di media o estrema gravità  lungo tutto il suo corso, si avvia ad asciugarsi sempre di più nei prossimi mesi. Allo stesso tempo, anche i grandi laghi registrano quote minime di riempimento. In particolare, il lago di Garda risulta quello in maggiore crisi, con un livello di acque appena al 25%.

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Eni scommette sulla fusione nucleare

Author: Wired

Eni spinge nella direzione della fusione nucleare. Da Devens, piccola località statunitense a 77 chilometri da Boston e sede di Commonwealth Fusion Systems, l’amministratore delegato della multinazionale italiana Claudio Descalzi non ha lasciato spazio a interpretazioni. “La fusione a confinamento magnetico – ha affermato, come riporta il Corriere della Seracambierà la geopolitica”.

Non ci saranno più tensioni – ha aggiunto l’ad –  tra i Paesi, perché tutti potranno produrre energia a basso costo con l’acqua, senza dipendere da petrolio, gas o carbone ma soltanto avendo la tecnologia. L’energia non sarà più la causa di una guerra perché tutti potranno averne accesso. Nessun paese potrà ricattare nessuno”.

La startup di Boston

Cfs è la startup nata nel 2018 dal Massachusetts Institute of Technology (Mit), proprio con l’obiettivo di sviluppare la fusione nucleare, che avviene tra due nuclei d’idrogeno e libera una grande quantità di energia: di fatto è “la reazione fisica – si legge sul sito di Enitotalmente naturale che alimenta il Sole e le altre stelle ed è dunque “una fonte di energia sicura, sostenibile e inesauribile”.

L’intenzione della startup è quella di industrializzare questo processo e distribuire l’energia elettrica su larga scala. Un’ambizione che Eni ha scelto di fare anche propria, investendo nella giovane società americana come principale azionista, con una quota pari al 19%, come ha confermato proprio nel corso dell’intervento a Devens Descalzi.

L’azienda italiana, per via di un accordo sottoscritto lo scorso 9 marzo tra il suo ad e quello di Cfs, Bob Mumgaard, ne è diventata azionista “strategica. Di fatto, Eni metterà a disposizione della startup le proprie competenze di ingegnerizzazione e la propria esperienza, per accelerare il processo di industrializzazione della fusione.

Primo test nel 2025

Nel dettaglio, l’azienda italiana fornirà a quella statunitense acciai speciali e superconduttori necessari a costruire Sparc, il primo impianto pilota, che dovrebbe generare energia già entro il 2025 e sorgerà all’interno del campus inaugurato a febbraio dal segretario all’Energia Jennifer Granholm.

La prima sfida che si pone Commonwealth Fusion Systems è quella di innescare la fusione per poi farla andare avanti in autonomia, come avviene sul Sole. Il passo successivo riguarderà la costruzione della prima centrale elettrica a fisione, Arc, che dovrebbe sorgere negli anni ‘30. “Avremo poi davanti a noi – ha spiegato Descalzi – quasi vent’anni per diffondere la tecnologia e raggiungere gli obiettivi di transizione al 2050”. 

Oltre a Eni, sono soci di Cfs anche Breakthrough Energy Ventures, il fondo di Bill Gates, la società di energia Equinor e The Engine, il veicolo di investimento del Mit. Potrebbero però investirci presto altri partner: come riporta sempre il Corriere, un documento della Casa Bianca ha infatti svelato che nel 2024 sarà investito per la fusione un miliardo, “il maggior investimento nella promessa di una fonte energetica pulita”.

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Microplastiche: negli oceani aumentano vertiginosamente, ma non tutto è perduto

Author: Wired

Se buttate una felpa di poliestere in lavatrice, non uscirà più come prima. Tutto il movimento nel cestello farà staccare le microfibre di plastica, che l’elettrodomestico scaricherà poi in un impianto di trattamento delle acque reflue. Tutte le particelle che non vengono filtrate sono riversate in mare. Come altre forme di microplastiche – bottiglie e sacchetti consumati, scaglie di vernice e le piccole palline di plastica noti come nurdle – l’inquinamento da microfibre negli oceani riflette la crescita esponenziale nella produzione di plastica: l’umanità produce ormai circa 450 miliardi di chili di plastica all’anno. Secondo il World economic forum,  entro il 2050 la produzione potrebbe triplicare rispetto ai livelli del 2016.

Ora una nuova analisi quantifica in modo inedito la quantità di plastica che sta contaminando la superficie degli oceani. Un team internazionale di ricercatori calcola che nel mondo galleggiano tra gli 82mila e i 358mila miliardi di particelle di plastica, per un totale di chili che va dagli 1,08 ai 4,8 miliardi. E tutto questo solo nello strato più superficiale dell’acqua.

Il nuovo studio

L’analisi, inoltre, tiene conto solo dei frammenti lunghi fino a un terzo di millimetro, anche se le microplastiche possono essere molto, molto più piccole, e diventano sempre più numerose (le microplastiche sono definite come particelle di lunghezza inferiore a 5 millimetri). Gli scienziati ora sono in grado di rilevare le nanoplastiche nell’ambiente, le cui dimensioni rientrano nell’ordine dei milionesimi di metro e che sono abbastanza piccole da penetrare nelle cellule, (anche se calcolarne il numero esatto è un processo ancora difficile e costoso). Se il nuovo studio avesse preso in considerazione anche le particelle di plastica più piccole, il computo negli oceani supererebbe le migliaia di miliardi: “Stiamo parlando di quintilioni, probabilmente, se non di più“, dice Scott Coffin, ricercatore presso il California state water resources control board e coautore dello studio, che è stato pubblicato l’8 marzo sulla rivista PLoS One.

È questo l’elefante nella stanza – concorda Marcus Eriksen, cofondatore del 5 Gyres institute e autore principale dello studio –. Se vogliamo parlare del numero di particelle in circolazione, non stiamo nemmeno guardando alle particelle su scala nanometrica”. Nonostante abbiano appena iniziato a studiare le conseguenze il del fenomeno, gli scienziati hanno già scoperto che le microplastiche più piccole sono in grado di muoversi facilmente nel corpo umano, finendo nel sangue, nell’intestino, nei polmoni, nella placenta e persino nelle prime feci dei neonati.

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Oro: quanto fa male al pianeta l’estrazione?

Author: Wired

L’estrazione dell’oro è piuttosto dannosa per l’ambiente: si stima che da sola sia la causa del 38% di tutte le emissioni di mercurio negli ecosistemi. E questo mercurio, dagli ecosistemi, per via delle sue caratteristiche chimiche entra facilmente nella catena alimentare umana. Parlando invece di emissioni atmosferiche (che come sappiamo sono anche la principale causa del riscaldamento globale) su base annua l’estrazione dell’oro emette più gas serra di tutti i voli passeggeri di tutti gli stati europei messi insieme. Questo dato peraltro riguarda solo l’estrazione, non la lavorazione dell’oro, altrimenti sarebbe ben peggiore.

L’oro si estrae, necessariamente, arrecando danni all’ambiente. Innanzitutto perché servono grandi quantità d’acqua, che verrà necessariamente contaminata dalle sostanze chimiche utilizzate nel processo di estrazione, ma anche per via della deforestazione. I Paesi che esportano la maggior parte dell’oro sono la Cina, la Russia, l’Australia, gli Stati Uniti, il Canada e il Messico. In tutti, con la sola parziale eccezione dell’Australia, all’apertura delle miniere corrispondono grandi operazioni di deforestazione. In certi casi, come avviene in Brasile e in Perù, si è visto che le miniere d’oro causano danni irreparabili a ecosistemi particolarmente fragili come quello della foresta amazzonica.

Purtroppo non è possibile avere dati precisi e affidabili sui danni ambientali causati dall’estrazione dell’oro. Questo per due ragioni: perché molto dell’oro esportato ogni anno non viene estratto da entità statali, ma da organizzazioni paramilitari non statali e da cartelli criminali, che soprattutto in Africa e in America del sud utilizzano l’estrazione illegale di materie prime per il proprio finanziamento. La seconda ragione è che grandi esportatori come Colombia, Uzbekistan e Sudafrica non forniscono dati né assicurano trasparenza sulle estrazioni che avvengono sul proprio territorio. I dati sull’inquinamento dovuto all’oro vengono, quindi, da pubblicazioni e studi prodotti da università e organizzazioni non governative. Il Wwf, per esempio, ha pubblicato un approfondito studio secondo cui fino al 70% dell’oro estratto nel mondo verrebbe poi raffinato in Svizzera, ma di questo stesso oro spesso non si possa accertare né la provenienza né i metodi utilizzati per la sua estrazione

La mancanza di tracciabilità dell’oro non è un problema soltanto ambientale, ma anche sociale: rende impossibile sapere se per estrarre l’oro si siano danneggiate aree naturali protette, per esempio, ma allo stesso tempo rende altrettanto impossibile escludere che nelle miniere abbiano lavorato minori. Come spesso accade, insomma, la protezione ambientale va a braccetto con quella dei diritti umani.

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Auto a benzina e diesel, il voto finale sullo stop in Europa è stato rimandato

Author: Wired

Le pressioni per bloccare lo stop europeo alla vendita di nuovi veicoli a diesel e benzina entro il 2035 hanno funzionato. Il voto sulla misura da parte del Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) sarebbe dovuto essere una mera formalità, dopo l’accordo raggiunto tra Consiglio dell’Unione e Parlamento europeo, ma lo sforzo contrario di Italia, Germania, Polonia e Bulgaria ha costretto Comitato a rinviare la votazione.

“Il Coreper ha deciso di rimandare la votazione finale sullo stop alla vendita di veicoli a diesel e benzina nel 2035, spostando l’incontro previsto il 7 marzo 2023 a una prossima riunione del comitato. Il Coreper affronterà la questione a tempo debito”, ha scritto su Twitter Daniel Holmberg, portavoce svedese del Coreper.

In Italia la decisione è stata accolta con soddisfazione dalla Federmotorizzazione, che raccoglie gli imprenditori attivi nella vendita di veicoli e parti di ricambio. Il presidente Simonpaolo Buongiardino ha rivolto “un plauso al ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, che “ha guidato la nostra rappresentanza” e “all’azione di Regione Lombardia per aver contribuito a “creare un gruppo” di paesi europei “contrari allo stop”.

Lo stop europeo

Il divieto, concepito come una transizione in 15 anni delle imprese alla produzione di veicoli elettrici, propone il divieto alla vendita di nuovi veicoli a combustione sul mercato interno dal 2035. una misura ideata per ridurre del 100% le emissioni di CO2 del settore dei trasporti, per contrastare le emissioni climalteranti dei veicoli tradizionali.

Tuttavia, la cordata formata da paesi produttori di veicoli e da quelli con il maggior numero di auto in circolazione ha incominciato a sollevare opposizione al progetto già approvato dal Parlamento nelle settimane precedenti al voto definitivo.

Alcuni di questi paesi, come l’Italia, avevano già chiesto di posticipare lo stop al 2040, mentre altri come la Germania, leader mondiale dell’industria automobilistica, hanno fatto pressioni per poter escludere dal divieto i veicoli alimentati con i carburanti sintetici, noti anche come e-fuels. Una tecnologia criticata dalle organizzazioni ambientaliste, per il loro impatto ambientale di filiera e per la loro produzione di emissioni da combustione.