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Tecnologia

La Russia vuole richiamare in patria gli specialisti informatici emigrati

Author: Wired

Con una nuova legge la Russia vuole vietare lo smart working. Si tratta di un tentativo di richiamare in patria alcuni tra i circa 100mila lavoratori e lavoratrici del settore informatico scappati all’estero da febbraio 2022, in seguito all’invasione dell’Ucraina, e dopo la mobilitazione forzata dei riservisti, avviata a settembre.

Mentre il settore è ormai in crisi da mesi, Mosca ha deciso di provare a risollevarlo imponendo a programmatori, sviluppatori, web designer e altri specialisti informatici di tornare in patria. Addirittura, si legge su Reuters, alcuni dei legislatori più estremisti vorrebbero vietare del tutto a questi lavoratori e lavoratrici di lasciare la Russia, per evitare che possano essere impiegati da aziende dei paesi Nato e condividere informazioni sensibili.

Ma con circa 100mila specialisti già all’estero, il Cremlino dovrebbe cominciare dei programmi di rimpatrio forzato per riportare tutti indietro. Un piano infattibile, per questo le autorità potrebbero minacciare licenziamenti o aumentare le tasse sul reddito di chi lavora per aziende russe dall’estero. La proposta è stata avanzata da Vyacheslav Volodin, collega di partito del presidente Vladimir Putin e influente presidente della Duma, il parlamento russo.

Tuttavia, in base alle testimonianze raccolte da Reuters, molti degli specialisti informatici russi emigrati in Argentina preferirebbero licenziarsi piuttosto che tornare in patria o pagare più tasse a Mosca. È il caso di una designer ventiseienne di nome Yulia, che ha definito gli ultimatum del Cremlino come una richiesta di negoziare con i terroristi: ‘Torna o renderemo il tuo lavoro impossibile, per la tua azienda e i tuoi dipendenti’”. Mentre un giovane freelance ha spiegato di aver smesso di pagare le tasse in Russia, perché quando si pagano le tasse si sostiene lo stato e la sua espansione militare. Non sto pagando e non ho intenzione di farlo”.

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Economia Tecnologia

È nata 3-I, la prima società italiana per sviluppare il software della pubblica amministrazione

Author: Wired

Dall’unione di Inps, Inail e Istat è nata la prima società italiana per lo sviluppo di software interamente a capitale e partecipazione pubblica. Progetto di fondamentale importanza negli obiettivi di digitalizzazione del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr), è stata chiamata 3-I, per sottolineare il ruolo centrale dei tre istituti fondatori. Approvata con un decreto lo scorso 13 aprile dal governo Draghi, è stata costituita oggi, 12 dicembre 2022, nei tempi previsti dal Pnrr.

La prima software house pubblica d’Italia avrà il compito di sviluppare, mantenere e gestire le soluzioni software dell’Istituto nazionale previdenza sociale (Inps), dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail), della presidenza del Consiglio dei ministri, del ministero del Lavoro e delle politiche sociali e delle altre pubbliche amministrazioni centrali.

Si tratta di uno dei primi passi concreti verso un’accelerazione digitale dello Stato, prevista dalla missione M1C1-Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella Pubblica amministrazione del Pnrr. I tre istituti hanno già predisposto lo statuto della società e indicato le risorse necessarie per il suo funzionamento, mentre l’amministratore delegato è stato nominato dal governo Meloni e individuato nella figura di Claudio Anastasio, fondatore di tNotice, società specializzata nelle raccomandate elettroniche.

3-I è partecipata al 49% da Inps, azionista di maggioranza relativa, al 30% da Inail e al 21% da Istat. Il rapporto tra la neonata società e i tre istituti sarà disciplinato attraverso un contratto di servizio nel quale saranno definiti la data di avvio dei servizi, i livelli minimi delle prestazioni e le relative compensazioni economiche. Inoltre Inps, Inail e istat, forniranno anche i primi professionisti alle dipendenze della società, per lo più ingegneri e sviluppatori di software, che in seguito saranno selezionati tramite concorsi pubblici, per arrivare a un organico complessivo previsto tra le 1.500 e le 2 mila persone.

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Economia Tecnologia

‘Ndrangheta, come funziona davvero l’algoritmo per stanarla

Author: Wired

Ed è proprio Bert uno dei componenti del software in via di sviluppo al Viminale, che tra le altre cose permetterà di ricercare termini, nomi, luoghi o date inserendoli nel giusto contesto e fornendo in modo più veloce informazioni che altrimenti resterebbero imprigionate in una mole di dati difficilmente esplorabili. “Nessuno ha mai specificamente applicato modelli di questo genere in un contesto investigativo, peraltro così specifico e peculiare come quello della ‘ndrangheta – prosegue Bui -. Addestrare una rete a conoscere un fenomeno che di per sé è molto complesso significa prima di tutto capire il fenomeno, poi bisogna farlo capire alla rete”.

A quel punto sono sufficienti l’intuito e l’esperienza investigativa per far emergere da un ammasso di dati informi una traccia che può essere seguita per attivare tempestivamente un servizio di osservazione o una intercettazione. “Alcuni eventi possono anche non essere di natura criminosa – aggiunge Bui – Come il movimento di persone di interesse che si spostano per un compleanno o in una specifica data, che ci permette di conoscere eventuali ricorrenze importanti e di inferire cosa potrebbe accadere in futuro al ricorrere di tali date”. 

article imageL’Interpol ha arrestato 75 membri di Black Axe

Si tratta della prima operazione ad hoc contro una delle organizzazioni cyber criminali più rodate al mondo. Coinvolti quattordici paesi tra cui anche l’Italia, con tre arresti a Campobasso

La mappa del potere mafioso

Rizzi spiega a Wired che il progetto di un software a sostegno di I-Can “nasce da due condizioni. La prima è che nel tempo abbiamo assistito a una colonizzazione all’estero della ‘ndrangheta. Sono circa 40 i paesi nel mondo dove la ‘ndrangheta ha una presenza strutturale con personaggi di spessore criminale”. 

La seconda – prosegue il prefetto – è che la sala operativa internazionale, l’hub che raccoglie tutte le informazioni dal mondo, processa 700 messaggi al giorno, contro i 400 dell’Interpol”. 

L’Italia infatti indaga sulle cosche scambiando informazioni sulla base di accordi bilaterali, come quello con il Congo. Da qui l’idea di trasformare “dati molto parcellizzati in dati esplorabili, ricondotti da 3-400 categorie di base ad alcune macro-categorie”, dice Rizzi. E attraverso questi dati tracciare e anticipare l’espansione della ‘ndrangheta. Che sembra per ora inarrestabile.

Secondo l’ultimo rapporto della Dia, “la ‘ndrangheta è presente a Girona e nella provincia di Madrid, a Murcia e in Catalogna. Ed “esponenti della ‘ndrangheta, inizialmente impiantati in Liguria si sono spostati nella Costa Azzurra, vista come naturale continuità lungo la costa del Mar ligure, andando a stabilirsi in città come Nizza, Mentone, Cannes, ove attualmente è presente una seconda generazione di mafiosi calabresi”. E ancora Regno Unito, “attratta dalla facilità di riciclare denaro offerta dal sistema economico-giuridico anglosassone”. 

Il Belgio è utile per il ruolo che il porto di Anversa può giocare nel narcotraffico dal Sudamerica. Così come l’Olanda, dove la ‘ndrangheta “è dedita in prevalenza alle attività legate al narcotraffico e al riciclaggio”. E ancora Germania, Austria, Albania, Slovacchia per restare in Europa. In Canada, “a Toronto, la ’ndrangheta opererebbe attraverso strutture a carattere intermedio con funzioni di coordinamento e supervisione, quali la “commissione” o “camera di controllo”. Tali strutture, nonostante l’indissolubile legame con la provincia di Reggio Calabria, avrebbero una maggiore autonomia rispetto al passato”, poi Messico, Colombia, Argentina, Brasile. E Australia, dove si crede sia presente una struttura locale fotocopia della ‘ndrangheta calabrese.

La ‘ndrangheta non è un problema italiano ma mondiale – osserva Giovanni Bombardieri, procuratore della Repubblica di Reggio Calabria -. Ha assoldato i migliori professionisti per infiltrare le economie legali attraverso i proventi delle attività illecite, dialoga e fa affari con i più pericolosi cartelli criminali in tutto il mondo”. 

Non a caso I-Can vede seduti al tavolo tutti i Paesi maggiormente colpiti. “Il progetto I-Can è volto a far comprendere la pericolosità della minaccia mafiosa, che l’Italia ha pagato con un costo altissimo – dice Rizzi – perché nelle giurisdizioni di molti paesi manca una previsione specifica contro la mafia”. 

Il prefetto Vittorio Rizzi

Il prefetto Vittorio Rizzi ANDRE PAIN/AFP via Getty Images

Lavoro di squadra

Per Bombardieri, “fino a poco tempo fa la cooperazione internazionale di polizia veniva attuata solo nella fase finale delle indagini, nell’esecuzione degli arresti e nella cattura dei latitanti. Oggi il coordinamento avviene molto prima perché occorre portare avanti le indagini contemporaneamente nei vari Paesi del mondo”.