Categorie
Economia Tecnologia

Skyward, il gruppo di studenti che costruisce razzi da competizione all’università

Author: Wired

Parlano di obiettivi e strategie aerospaziali come fossero dei veterani, e in un certo senso lo sono: galloni e stellette li hanno conquistati sul campo. Se studiare con la testa tra le nuvole di solito non rende, beh, loro rappresentano un’eccezione. Letteralmente. A Milano c’è un’associazione studentesca che progetta, costruisce e lancia razzi sonda di due metri e mezzo. Si chiama Skyward, è nata nel 2012 in seno al Politecnico di Milano e fa incetta di premi internazionali. Lo scorso ottobre ha stravinto Euroc, competizione missilistica internazionale organizzata dall’agenzia spaziale portoghese, e lo ha fatto stracciando la concorrenza. 

L’importanza di arrivare primi

Skyward raccoglie 140 studenti di diverse facoltà, da ingegneria aerospaziale a gestionale, incluse informatica e persino design – spiega a Wired Virginia Porro, presidente del gruppo -. A lungo è stata solo una sorta di banco di prova per studenti, ma la nascita di Euroc tre anni fa ci ha dato uno scopo verso cui far convergere gli sforzi. Si tratta di una competizione più  piccola di quelle americane, ma con requisiti tecnici molto più stringenti”. 

A costruire un missile poco dopo aver preso la patente si arriva dedicando al progetto ogni minuto libero, e con un’organizzazione del lavoro quasi tayloristica. Ogni squadra si occupa di un aspetto, dall’elettronica al software, passando per algoritmi, controllo in volo, analisi delle emissioni. “Cerchiamo di realizzare qualcosa di innovativo e al contempo interessante per i ragazzi che ci lavorano – prosegue Porro -. E unendo le conoscenze, alla fine il razzo si arriva a lanciarlo davvero”. 

Il problema non è costruire un oggetto che voli all’infinito, ma un dispositivo che arrivi più vicino possibile all’obiettivo fissato”, illustra Marco Del Togno, futuro ingegnere meccanico, responsabile della logistica e della parte comunicativa. I test più semplici, confida, avvengono in una zona attrezzata nei pressi del Politecnico, con paracadute e vele che permettono di recuperare i vettori ancora in ottimo stato. Gli altri a Roccaraso, in Abruzzo.

Competizione dura, quella con le altre squadre che partecipano all’Air Summit lusitano. “E noi, con Pyxis, abbiamo stravinto – rimarca Del Togno -, agguantando anche i technical award (miglior design e miglior report, ndr) e il premio per il miglior sistema di antenne”. Grandi novità sono attese per il 2023, quando esordirà il motore ibrido al protossido di azoto, che ha richiesto due anni di progettazione. 

Il sogno? La Formula Uno

Porro, che è ingegnere gestionale, racconta con un sorriso come è entrata nel gruppo. “L’università italiana è molto teorica, e cercavo un’associazione studentesca per non limitarmi a stare solo sui libri”, ricorda. Consigliata da un amico, l’idea di provare a spedire un oggetto in orbita assieme a un gruppo di coetanei l’ha conquistata. Non esattamente positiva la prima esperienza. “Il lancio cui ho assistito si è schiantato. Un anno di lavoro andato in fumo, ma l’importante è perseverare, e sapevamo di avere margini di miglioramento”, dice.

Categorie
Tecnologia

I rifiuti spaziali stanno diventando un problema serio, anche per la Iss

Author: Wired

Lo spazio si va facendo sempre più trafficato. E con ogni satellite che viene messo in orbita, si creano nuovi detriti destinati a trasformarsi in rifiuti spaziali. La comunità scientifica lo sa bene, tanto che ha deciso di lanciare un appello chiedendo uno sforzo globale per eliminare i rifiuti che orbitano attorno al nostro pianeta. Così come la Nasa, che di recente ha dedicato al problema un rapporto, in cui analizza i pericoli che corrono ogni giorno la stazione spaziale internazionale e i satelliti in orbita terrestre a causa dei rifiuti spaziali, le possibili soluzioni e il loro costo.

Un po’ di numeri

Per comprendere le dimensioni del problema è utile iniziare dando un’occhiata alle stime più aggiornate elaborate dallo Space Debris Office dell’Esa. Dal 1957 i lancia spaziali sono stati in totale 6.370, per circa 15mila satelliti inseriti in orbita, di cui 9.790 ancora nello spazio, e 7.200 ancora in funzione. Esplosioni, collisioni e incidenti di vario tipo sono avvenuti circa 640 volte, producendo un’enorme mole di frammenti che ora intasano l’orbita terrestre: le stime dell’Esa parlano di 36.500 detriti di dimensioni superiori ai 10 centimetri, un milione compresi tra uno e 10 centimetri, e 130milioni tra il millimetro e il centimetro.

In questo caso, non bisogna farsi ingannare dalle dimensioni. I rifiuti spaziali più piccoli e più abbondanti in realtà sono anche i più pericolosi, perché viaggiando a 28mila chilometri orari anche un frammento di pochi millimetri può provocare danni ingenti. Per farsi un’idea, diversi finestrini degli Space Shuttle, negli anni precedenti al loro pensionamento, sono stati sostituiti a causa dell’impatto di detriti spaziali che le analisi hanno poi dimostrato essere niente altro che microscopiche croste di vernice staccatesi da qualche satellite dopo decenni di onorato servizio nello spazio.

Nei decenni, gli incidenti spaziali causati dall’impatto con micrometeoriti e rifiuti spaziali (spesso difficili da distinguere gli uni dagli altri) non sono quindi mancati. Come nel caso del microsatellite militare francese Cerise, che nel 1996 si scontrò con un detrito proveniente dallo stadio superiore di un razzo Ariane 1, perdendo il suo stabilizzatore a gradiente di gravità (una lunga barra di metallo che serve a stabilizzare passivamente i satelliti). O in quello del satellite per le comunicazioni russo Ekspress AM11, distrutto da un oggetto non identificato (ma ritenuto quasi certamente spazzatura spaziale) nel 2006. O ancora, nel caso del satellite della Nasa Aura, dedicato allo studio dell’atmosfera, che nel 2010 ha perso metà dei suoi 11 pannelli solari in seguito all’impatto con detriti spaziali non identificati.

I rischi per la Iss

Veniamo alla stazione spaziale internazionale, sicuramente il più importante manufatto umano posizionato stabilmente nell’orbita terrestre. È facile immaginare che una struttura di quasi 100 metri, per 80 di larghezza, debba avere qualche problema a navigare uno spazio sempre più ingolfato da satelliti e pericolosa spazzatura. E in effetti è proprio così. Quando un detrito potenzialmente pericoloso di cui è nota l’esistenza si avvicina troppo alla stazione (ovvero quando la sua orbita lo porta a passare entro 50 chilometri dall’Iss), i protocolli della Nasa richiedono che venga messa in atto una procedura di evitamento, per scongiurare il rischio di una collisione. E la frequenza di questi interventi è in aumento da anni. Proprio in questo inizio di 2023 l’Iss ha già dovuto attivare i suoi motori due volte, a distanza di poco più di una settimana, per dribblare un incontro ravvicinato con due diversi satelliti. Dal 1999 è già accaduto 32 volte, con costi non indifferenti per ogni manovra, che ha calcolato il recente rapporto Nasa. Servono 70 chili di propellente per spostare la Stazione spaziale internazionale dalla sua orbita, e altrettanti per riportarla su quella precedente una volta superato il pericolo. Tutto considerato, parliamo ci circa un milione di dollari per manovra, per evitare danni stimati (nella peggiore delle ipotesi, cioè la distruzione della stazione o l’impossibilità di proseguire le operazioni) in circa 2-300 milioni di dollari.

È tempo di agire

Al momento, il rischio che corrono satelliti, stazioni spaziali e razzi che partono dal nostro pianeta è considerato ancora relativamente basso. Ma gli esperti assicurano che è destinato ad aumentare velocemente nei prossimi anni, in assenza di interventi decisi in ambito internazionale. Uno dei primi a sollevare la questione, negli anni ’70, è stato l’astrofisico della Nasa Donald Kessler, ideatore di quella che viene definita sindrome di Kessler: uno scenario ipotetico in cui la densità di satelliti e rifiuti in orbita attorno al nostro pianeta diventa così elevata, che una singola collisione tra due oggetti di dimensioni relativamente elevate (qualche decimetro di diametro), crea una reazione a catena, in cui i detriti prodotti provocano nuove collisioni, nuovi detriti, e così via. Il risultato, un tale affollamento di frammenti in orbita da rendere impossibile lanciare nello spazio nuovi strumenti, satelliti o razzi per decenni, in attesa che la gravità faccia il suo corso, portando la spazzatura spaziale a rientrare nell’atmosfera e disintegrarsi ricadendo sulla superficie.

Categorie
Tecnologia

Universo: l’esplosione cosmica perfetta che ci aiuta a calcolarne l’età

Author: Wired

Immaginate una gigantesca esplosione che si propaga in modo perfettamente sferico. Sembra innaturale, no? Anche gli scienziati che l’hanno recentemente descritta per il caso della kilonova AT2017gfo, avvenuta nella galassia Ngc4993, a circa 140 milioni di anni luce da noi, pensano lo stesso. Eppure, conti alla mano, questa enorme esplosione osservata per la prima volta nel 2017 sembra davvero mostrare questo pattern. La scoperta, proprio perché apparentemente inspiegabile, potrebbe fornirci dei modelli alternativi per misurare l’età del nostro Universo. I risultati sono frutto dello studio di un gruppo di ricercatori dell’università di Copenhagen, recentemente pubblicato sulle pagine di Nature.

Che cos’è una kilonova

Che si tratta di un’enorme esplosione astronomica lo abbiamo già detto, ma perché ci interessa tanto? Le kilonovae si verificano quando due stelle di neutroni che orbitano l’una intorno all’altra finiscono per scontrarsi e fondersi, dando origine a un buco nero e liberando un’enorme quantità di energia. Le stelle di neutroni sono in pratica ciò che rimane delle stelle una volta che i processi di fusione nucleare che alimentano il loro nucleo si sono esauriti: dei corpi celesti compattissimi, che misurano solitamente non più di 20 chilometri di diametro ma che possono pesare anche due volte la massa del Sole. Lo scontro fra questi corpi celesti, da cui si genera appunto la kilonova, ci riguarda più di quanto pensiamo perché dà origine alle condizioni fisiche estreme che consentono di creare gli elementi più pesanti della tavola periodica – come l’oro, il platino e l’uranio – per mezzo di processi di fusione nucleare. 

Il mistero della sfericità

Nessunoha affermato Darach Watson, professore associato presso l’Istituto Niels Bohr e secondo autore dello studio – si aspettava che l’esplosione avesse questo aspetto. Non ha senso che sia sferica, come una palla. Ma i nostri calcoli mostrano chiaramente che è così. Questo probabilmente significa che le teorie e le simulazioni delle kilonovae che abbiamo preso in considerazione negli ultimi 25 anni mancano di importanti considerazioni di fisica”. Sono serviti ben 6 anni dalle prime misurazioni effettuate, che, lo ricordiamo, risalgono al 2017, per giungere a questa conclusione così misteriosa. Quelli relativi alla kilonova AT2017gfo sono anche gli unici dati di questo tipo di cui disponiamo al momento e gli autori sottolineano che saranno necessari dati relativi ad altri eventi di questo tipo per confermare le loro osservazioni

Anche secondo Albert Sneppen, primo autore dello studio, tutte le intuizioni e anche i modelli esistenti suggerirebbero che la nube esplosiva che si genera dalla collisione abbia una forma appiattita e piuttosto asimmetrica. Ma, appunto, non sembrerebbe essere questo il caso. I ricercatori stanno quindi formulando delle ipotesi che spieghino questo comportamento così inaspettato e che potrebbe tra l’altro fornirci un nuovo metodo per misurare le distanze fra corpi celesti. Questo avrebbe anche delle conseguenze sul modo che utilizziamo per misurare la velocità con la quale l’Universo si sta espandendo: “Tra gli astrofisici – spiega Sneppen – si discute molto sulla velocità di espansione dell’Universo. La velocità ci dice, tra le altre cose, quanto è vecchio l’Universo. I due metodi esistenti per misurarla sono in disaccordo di circa un miliardo di anni. Qui potremmo avere un terzo metodo che può integrare ed essere testato rispetto alle altre misurazioni”. Le kilonovae potrebbero essere utilizzate come “un nuovo tipo di righello cosmico”, come lo definisce Watson.

Categorie
Tecnologia

Ufo: secondo il Pentagono gli avvistamenti sono in aumento

Author: Wired

Gli avvistamenti Uap, acronimo di Unidentified aerial phenomenon, (chiamati in precedenza Ufo), stanno aumentando. Secondo il nuovo rapporto della task force del Pentagono sugli Uap, le segnalazioni, fatte da militari e membri della marina e dell’aviazione americana, sarebbero aumentate negli ultimi anni, salendo a oltre 350, metà delle quali rimaste finora inspiegabili. Il report è stato pubblicato dall’Office of the Director of National Intelligence, Odni, in collaborazione con l’All-Domain Anomaly Resolution Office (Aaro), del Dipartimento della difesa statunitense. “La sicurezza del nostro personale di servizio, delle nostre basi e delle operazioni statunitensi a terra, nei cieli, nei mari e nello spazio sono fondamentali”, ha commentato in una nota il generale Pat Ryder, addetto stampa del Pentagono, dimostrandosi preoccupato per la sicurezza nazionale. “Prendiamo seriamente le segnalazioni di incursioni nel nostro spazio, terra, mare o spazi aerei designati ed esaminiamo ciascuna di esse”.

Il rapporto

Sebbene i dettagli delle segnalazioni Uap siano stati forniti solo nella versione riservata del rapporto, quella “unclassified” fornisce una ripartizione dei 366 avvistamenti appena identificati. Più della metà degli avvistamenti è stata provvisoriamente classificata con “caratteristiche irrilevanti”, e in particolare: 26 sono stati causati da droni o dispositivi simili a droni, 163 causati da palloni o oggetti simili, 6 sono stati attribuiti a disturbi come uccelli, eventi meteorologici, sacchetti di plastica o altri detriti trasportati dall’aria. Tuttavia, le restanti 171 segnalazioni sono rimaste “non caratterizzate e non attribuite”. Alcune di queste sembrano avere “caratteristiche di volo o capacità prestazionali insolite e richiedono ulteriori analisi”, si legge dal rapporto. Ma almeno alcune delle anomalie potrebbero essere attribuite a difetti dei sensori o altre cause non così misteriose. “Molti avvistamenti mancano di dati abbastanza dettagliati per consentire l’attribuzione di Uap con elevata certezza”, afferma il rapporto.

Cosa dice la Nasa

Nel rapporto, precisiamo, non c’è alcuna prova della possibilità che gli Ufo e gli alieni possano avere avuto un ruolo in nessuna segnalazione Uap. Tuttavia, come racconta Avi Loeb, astrofisico di Harvard che presiede il Breakthrough Starshot Advisory Committee, le informazioni più interessanti sugli avvistamenti Uap probabilmente rimarranno nascoste al pubblico. “Anche se un oggetto tra quelli segnalati è di origine extraterrestre e questo oggetto non rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale, la sua identificazione sarà la scoperta più importante che l’umanità abbia mai fatto”, ha commentato Loeb.

Lo scorso anno, ricordiamo, anche la Nasa ha creato un panel indipendente per valutare i rapporti di avvistamento Uap non militari e potrebbe pubblicare i suoi primi risultati entro il 2023. “La mia opinione personale è che l’universo è grande e ora ci sono persino teorie secondo cui potrebbero esserci altri universi”, aveva spiegato Bill Nelson, amministratore della Nasa. “E se è così, chi sono io per dire che il pianeta Terra è l’unico luogo in cui si trova una forma di vita civilizzata e organizzata come la nostra?”.

Categorie
Tecnologia

La Nasa costruirà un nuovo super-telescopio per cercare vita aliena

Author: Wired

Mentre James Webb, il telescopio più complesso mai costruito, continua a inviarci informazioni preziosissimeimmagini mozzafiato dello Spazio profondo, la Nasa pensa già alla costruzione dei suoi successori. Il primo a essere lanciato, in ordine di tempo, dovrebbe essere il Nancy Grace Roman, o Wide Field Infrared Survey Telescope (Wfirst), sensibile alla luce infrarossa e dedicato, tra le altre cose, allo studio dell’energia oscura. Il secondo – e questa è la notizia di oggi, dato che se ne è appena parlato nel corso dell’ultimo congresso della American Astronomical Society – sarà lo Habitable Worlds Observatory (Hwo), un telescopio che dovrebbe vedere la luce (in tutti i sensi) intorno al 2040 e il cui obiettivo principale, come suggerisce il nome, sarà la ricerca della presenza di eventuali forme di vita su esopianeti simili alla Terra.

Al momento, purtroppo, le informazioni sono ancora poche, soprattutto perché non è stato ancora allocato un budget per il progetto. Quello che si sa è che, come il James Webb, anche lo Hwo si “parcheggerà” a L2, il punto lagrangiano a circa un milione e mezzo di chilometri dalla Terra. Nelle intenzioni dei progettisti, inoltre, dovrebbe essere aggiornato e riparato, se necessario, da robot costruiti all’uopo, il che gli potrebbe consentire di essere operativo per decenni, e addirittura di migliorare nel tempo. 

La raccolta delle idee

Ogni dieci anni, la Nasa, il Department of Energy e la National Science Foundation statunitensi conducono un sondaggio in cui chiedono a decine di esperti, divisi in commissioni e sottocommissioni, quali dovrebbero essere, secondo loro, le priorità della ricerca in astrofisica, e di quali telescopi (sia nello Spazio che a Terra) avrebbero bisogno per raggiungere gli obiettivi individuati. Il desiderio che è emerso con più forza dai sondaggi recenti è la “resurrezione” del programma Grandi Osservatori (Great Observatories), quello che ha permesso il lancio dello Hubble Telescope e di altri strumenti simili negli anni novanta e all’inizio degli anni duemila.

Gli ultimi sondaggi: James Webb e Nancy Grace Roman

Il terzultimo sondaggio, completato nel 2001, aveva indicato per l’appunto come priorità la costruzione del James Webb Space Telescope – cosa che si è effettivamente avverata, anche se con molti ritardi e una spesa molto superiore al previsto. Quello successivo, concluso nel 2010, aveva invece indicato la costruzione dello Wide Field Infrared Survey Telescope (WFIRST), intitolato all’astronoma Nancy Grace Roman e dedicato alla ricerca dell’energia oscura, il cui lancio, inizialmente previsto per il 2025, è stato per ora rimandato al 2027. Tutti questi ritardi e gli sforamenti di budget, raccontava Science nel 2018, hanno fatto nascere il sospetto che le proposte individuate in questo modo fossero “immature e poco realistiche”, generando, a detta di Robert Blandford, esperto della Stanford University e coordinatore del sondaggio del 2010, “un senso di frustrazione diffusa”.

I nuovi piani

Nell’ultimo sondaggio, quello avviato nel 2018, è stato chiesto agli esperti di indicare la loro priorità tra quattro progetti: il Large UV Optical Infrared Surveyor (Luvoir), un telescopio spaziale con uno specchio dal diametro di 15 metri, in grado di raccogliere 40 volte più luce rispetto a Hubble e che è sensibile, come suggerisce il nome, alle lunghezze d’onda nell’infrarosso; lo Habitable Exoplanet Observatory (HabEx), con uno specchio più piccolo ma corredato di una sorta di enorme “paralume”, delle dimensioni di un campo da calcio, per bloccare la luminosità delle stelle e consentire ai suoi strumenti di concentrarsi sugli esopianeti (che sono naturalmente molto meno luminosi) e cercare possibili tracce di vita; il Lynx Xray Observatory, un telescopio sensibile alla luce nelle frequenze dei raggi X, per studiare i buchi neri più antichi dell’Universo e comprendere quale sia il loro legame con i meccanismi di formazione ed evoluzione delle galassie; lo Origin Space Telescope, uno strumento mantenuto a circa 4 gradi sopra lo zero assoluto per studiare la radiazione infrarossa emessa dalle nubi di gas freddo e di polvere da cui nascono pianeti e stelle.