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Il carcere di Guantánamo è un buco nero ormai dimenticato

Author: Wired

Per la prima volta dopo oltre 21 anni dalla sua apertura, avvenuta l’11 gennaio 2002 all’interno della base navale americana situata nella zona sud dell’isola di Cuba, il governo degli Stati Uniti ha concesso alle Nazioni Unite l’accesso al campo di prigionia di Guantánamo. Una “visita tecnica” che si è conclusa il 26 giugno scorso e che ha avuto come primo risultato un fitto report di 23 pagine, nel quale la rappresentante Onu Fionnuala Ní Aoláin detta come priorità la definitiva chiusura del luogo simbolo della “lotta al terrorismo, inaugurato dall’amministrazione guidata da George W. Bush a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle. La special rapporteur ha avuto colloqui in forma privata con gli attuali 30 detenuti, con il personale militare e medico della base e, precedentemente alla visita, con i familiari e con l’associazione Cage, fondata da ex detenuti di Guantánamo.

La relatrice speciale Onu vede come un “segnale positivo” la disponibilità dell’amministrazione Biden a concedere l’acceso a una zona militare extraterritoriale da sempre interdetta a qualsiasi controllo e nella quale ai 780 detenuti, tutti uomini di religione musulmana catturati nel corso dei due decenni precedenti in Afghanistan, Pakistan e Yemen con l’accusa di terrorismo, è stato negato qualsiasi diritto fondamentale. Persone che “non hanno alcun tipo di relazione con quanto avvenuto l’11 settembre 2001” e che, tuttavia, hanno vissuto o vivono tuttora l’esperienza di continui traumi fisici e psicologici. Per molti detenuti “la linea di separazione tra il passato e il presente è straordinariamente sottile, se non inesistente: le passate esperienze di tortura, costantemente rivissute nel presente, non hanno possibilità di risolversi in ragione del fatto che i detenuti non hanno ricevuto dal governo americano alcun tipo di terapia riabilitativa in grado di sanare il trauma subìto”.

Prigioniero

PrigionieroSabri al-Qurashi, per gentile concessione

Problemi cronici

Se le condizioni materiali a Guantánamo sono “nettamente migliorate rispetto al periodo nel quale sono arrivati i primi prigionieri e agli anni successivi, in cui il luogo “era caratterizzato da brutalità sistematiche e istituzionalizzate”, vi sono tuttora aspetti estremamente critici. Sebbene sia garantita un’assistenza medica di base, gli specialisti e le facilities che dovrebbero occuparsi della riabilitazione dei traumi dovuti alla tortura “non sono strutturate per affrontare disabilità permanenti, traumi cerebrali, dolore cronico e tutte le manifestazioni connesse, così come l’assenza per 21 anni del supporto emotivo dato dalla famiglia e dalla comunità di appartenenza”. Grazie al costante impegno dei legali e della Croce rossa internazionale è stata gradualmente implementata la possibilità di comunicare con familiari, che tuttavia, in alcuni casi, “hanno appreso dopo oltre 15 anni della detenzione a Guantánamo di un loro congiunto”. Alcuni detenuti hanno preferito evitare le chiamate per “paura di ritorsioni verso i familiari da parte del governo degli Stati Uniti o del Paese di origine” e in un caso “solo la madre del detenuto è riuscita a identificare in una video call il figlio, ormai irriconoscibile a causa del rapido processo di invecchiamento”.

Dopo oltre vent’anni, la realtà di Guantánamo corre il rischio di venire dimenticata secondo l’ultimo rapporto della Seton Hall Law School di Newark, firmato da Mark Denbeaux, che in American Torturers: Fbi and Cia Abuses at Dark Sites and Guantánamo denuncia come gli Stati Uniti abbiano distrutto o nascosto tutte le prove video delle sistematiche torture inflitte ai detenuti. L’unica testimonianza visiva di quanto accaduto sono i disegni dell’artista yemenita Abu Zubaydah, assistito da Denbeaux, e prima vittima delle “enhanced interrogation techniques”, sottoposto 83 volte alla “simulazione di annegamento” (waterboarding). I 40 disegni sono stati pubblicati da The Guardian e, prima ancora, esposti nella mostra Remaking the Exceptional. Tea, Torture, and Reparations. Chicago to Guantánamo al DePaul Art Museum di Chicago.

Una mostra per denunciare

Guantánamo non è un caso eccezionale ma costituisce l’ordinaria modalità di funzionamento del sistema carcerario statale”, affermano i due curatori, Aaron Huges, artista e veterano della guerra in Iraq, e Amber Ginsburg, docente di arti visive all’università di Chicago. Ed è qui, nella terza più grande città degli Stati Uniti che, tra gli anni Settanta e Ottanta, oltre un centinaio di persone di colore sono state vittime delle torture del capo del Dipartimento di Polizia, Jon Burge. Tra le modalità di tortura più “efficaci”, le scariche elettriche generate da un dispositivo, in gergo detto “black box”, nato dall’adattamento di una invenzione dello scienziato serbo Nikola Tesla, utilizzato anche dai soldati americani durante la guerra in Vietnam.

Nel lavoro di ricostruzione fatto dai curatori, nel recupero di opere d’arte e nel raffronto tra i racconti dei detenuti rinchiusi a Guantánamo e quelli delle vittime di Burge, oltre che da inchieste giornalistiche, è emerso un filo rosso che lega le due esperienze. Anche il report delle Nazioni Unite conclude che l’eccezionalità, la discriminazione e la narrazione in chiave “anti-terroristica” per giustificare le violenze perpetrate a Guantánamo “hanno avuto effetti che vanno ben oltre i suoi confini con enormi conseguenze sui diritti umani in più Paesi”.

Crediamo, e sogniamo, che l’arte rappresenti una forma di giustizia riparativa, di affermazione di libertà e di guarigione – affermano Hughes e Ginsburg -. La giustizia è una pratica. Come diciamo in Remaking the Exceptional, le riparazioni sono un modo per rimediare i torti, un percorso verso la guarigione, un passo verso la giustizia”.

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10 paesi che tornano a investire nel nucleare

Author: Wired

L’energia nucleare sta guadagnando terreno: mentre si intensifica la spinta verso un mondo più green, sempre più paesi ritengono che il percorso verso le emissioni zero sarà più veloce e più facile con l’ausilio del nucleare. Numerosi governi in tutto il mondo stanno adottando politiche a sostegno del nucleare e i piani per la costruzione di grandi centrali stanno prendendo piede in moltissime regioni. Decine di progetti sono in fase di sviluppo, sostenuti da finanziamenti pubblici e privati.

Il centro di gravità dell’energia nucleare si sta però spostando dal Nord America e dall’Europa alla Cina e ad altre zone del mondo. Svariati sono i paesi che stanno costruendo per la prima volta centrali nucleari, tra cui Emirati arabi uniti, Turchia, Bangladesh ed Egitto, e che contribuiranno alla nuova tendenza. E anche altri governi stanno lavorando per entrare a far parte del club.

I progetti:

  1. Emirati arabi uniti
  2. Arabia saudita
  3. Cina
  4. Bangladesh
  5. Turchia
  6. Egitto
  7. India
  8. Spagna
  9. Stati Uniti
  10. Polonia

In primo piano, l'ad Francesco Sciortino. Dietro di lui, con la giacca, il direttore operativo Lucio MilaneseNasce una nuova startup per la fusione nucleare

È Proxima Fusion, spin out del Max Planck tedesco: con due italiani tra i cofondatori e un altro nel team di startup punta a realizzare una centrale a fusione prima nel suo genere entro il 2030

Emirati arabi uniti

Gli Emirati arabi uniti hanno avviato un programma di energia nucleare in stretta consultazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica e con un enorme sostegno pubblico. Hanno accettato un’offerta di 20 miliardi di dollari da parte di un consorzio sudcoreano per costruire quattro reattori nucleari commerciali. L’unità 1 della prima centrale nucleare del Paese è stata collegata alla rete nell’agosto 2020, seguita dall’unità 2 nel settembre 2021 e dall’unità 3 nell’ottobre 2022.

Arabia saudita

Nel gennaio 2023 il ministro dell’Energia saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, ha annunciato che, data la recente scoperta di riserve di uranio, il regno intende portare avanti i suoi piani di sviluppo di un’infrastruttura nucleare, con una dimensione sia nazionale che internazionale. Un passo storico, per un paese storicamente legato al petrolio: Riyadh ora starebbe lavorando a una possibile alleanza con gli Stati Uniti per lo sviluppo dell’industria nucleare, un po’ come fatto nel secolo scorso con Saudi Aramco, la compagnia petrolifera saudita.

Cina

L’impulso all’energia nucleare in Cina è sempre più dovuto all’inquinamento atmosferico prodotto dalle centrali a carbone. Pechino è diventata ampiamente autosufficiente nella progettazione e nella costruzione dei reattori, ma sta sfruttando anche la tecnologia occidentale, adattandola e migliorandola. Rispetto al resto del mondo, un punto di forza è la catena di approvvigionamento nucleare. Gli investimenti sono consistenti e la politica cinese è quella di “globalizzare” l’esportazione della tecnologia nucleare, compresi i componenti pesanti della catena di approvvigionamento.

Bangladesh

Il Bangladesh ha avviato la costruzione del suo primo reattore nucleare, Rooppur 1, nel novembre 2017. La messa in funzione dell’unità è prevista per il 2024. La costruzione della seconda unità di Rooppur è iniziata nel luglio 2018. Il Paese ha una domanda di energia elettrica in rapida crescita e punta a ridurre la sua dipendenza dal gas naturale.

Turchia

La Turchia ha pianificato la produzione di energia nucleare fin dal 1970. Oggi i piani per il nucleare sono un aspetto fondamentale per la crescita economica del paese. I recenti sviluppi hanno visto la Russia assumere un ruolo di primo piano nell’offrire il finanziamento e la costruzione di strutture. La realizzazione del primo reattore nucleare del Paese, il primo di quattro ad Akkuyu, è iniziata nell’aprile 2018. Un consorzio franco-giapponese avrebbe dovuto costruire il secondo impianto nucleare a Sinop, ma ora Ankara tratta con la russa Rosatom. La Cina è in lizza per costruire il terzo impianto, con tecnologia di derivazione statunitense. È previsto un piccolo progetto di estrazione dell’uranio.

Egitto

L’Egitto ha preso in considerazione l’idea di dotarsi di energia nucleare fin dagli anni Sessanta. Adesso sta lavorando alla costruzione di una centrale nucleare composta da quattro grandi reattori russi con una notevole capacità di desalinizzazione.

India

L’India ha un programma di energia nucleare in gran parte interno. Il governo indiano è impegnato a far crescere la propria capacità nucleare come parte del suo massiccio programma di sviluppo delle infrastrutture. L’esecutivo ha fissato obiettivi ambiziosi per il futuro. Poiché l’India non rientra nel Trattato di non proliferazione nucleare a causa del suo programma di armamento, per trentaquattro anni è stata ampiamente esclusa dal commercio di impianti e materiali, il che ha ostacolato lo sviluppo dell’energia nucleare civile fino al 2009.

Spagna

L’energia nucleare rappresenta attualmente un asset considerevole per la Spagna. Il Paese ha una capacità installata superiore ai 7 GW, generata da sette reattori. Le centrali nucleari sono attualmente essenziali per il fabbisogno energetico del Paese e i ministri hanno quindi eliminato i limiti alla loro durata di vita operativa. Nel 2020 e 2021, sei dei sette reattori del Paese hanno rinnovato le loro licenze.

Stati Uniti

Gli Stati Uniti sono il maggiore produttore mondiale di energia nucleare, rappresentando oltre il 30% della produzione mondiale. Dopo un periodo di trent’anni in cui l’industria sembrava in calo, si prevede che presto entreranno in funzione nuove unità.

Polonia

La Polonia prevede di usare l’energia nucleare a partire dal 2033, come parte di un portafoglio energetico diversificato, allontanandosi dalla forte dipendenza dal carbone. Varsavia in precedenza aveva preso in considerazione una partecipazione nella centrale nucleare di Visaginas in Lituania, ma ora ha altri progetti. Il piano energetico del paese prevede che la costruzione dell’impianto inizi nei prossimi anni, con la messa in funzione della prima unità nel 2032 o 2033. Le unità successive entreranno in funzione dopo tale data, per arrivare a tutte e sei le unità entro il 2040.

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La condanna di uno dei più controversi trafficanti del dark web

Author: Wired

L’assistente del procuratore statunitense Michael Neff ha indicato questi commenti come prova del “completo disprezzo per la vita umana” di Clark, per il quale “la questione di porre fine alla vita di un altro uomo era semplice e priva di stress“, ha aggiunto Neff al giudice nella dichiarazione dell’accusa.

Nelle sue dichiarazioni, Clark non ha commentato lo scambio relativo all’omicidio (che in passato aveva definito un’invenzione di Ulbricht, salvo poi ammetterne la veridicità). Si è invece concentrato sulle buone intenzioni dietro alla gestione di Silk Road, che, a suo dire, avrebbe salvato migliaia di vite evitando overdose causate da droghe adulterate. In maniera contradditoria, Clark ha riconosciuto che almeno sei persone citate dai pubblici ministeri sono morte per overdose causate dagli stupefacenti venduti sul sito. “Se Silk Road non fosse esistito, queste persone sarebbero vive oggi? Probabilmente sì – ha detto Clark –. Abbiamo salvato migliaia di vite? Sì, ma ne abbiamo prese anche altre“. Clark ha quindi paragonato le sue azioni all’esperimento di filosofia etica noto come “problema del carrello ferroviario”.

Depistaggi e teatralità

Clark e il suo avvocato hanno dedicato gran parte delle loro dichiarazioni a descrivere le terribili condizioni della sua detenzione negli ultimi anni in Thailandia, e successivamente in un carcere di New York. Il suo avvocato ha detto alla corte che Clark è rimasto traumatizzato dalle torture e dalle violenze sessuali subite in un carcere tailandese, che gli è stata negata l’assistenza sanitaria e che quando è arrivato negli Stati Uniti pesava poco più di 40 chilogrammi. Al Metropolitan Detention Center di Brooklyn, Clark ha descritto la corruzione e l’incuria che lo hanno portato a cadere dalla sua branda durante un capogiro nel 2021, a rompersi il bacino e ad essere lasciato in preda al dolore per tutta la notte nonostante le sue richieste di aiuto. Il giudice Stein ha riconosciuto gli anni di sofferenza e i maltrattamenti subiti da Clark, concludendo però di non essere “convinto che consentano una riduzione sostanziale” della pena.

Nelle sue dichiarazioni Clark ha fatto anche alcune nuove bizzarre affermazioni, sostenendo – senza fornire prove – di aver speso 800mila dollari dei ricavi di Silk Road per acquistare strumenti di hacking che potevano essere usati per de-anonimizzare gli utenti del dark web coinvolti nello sfruttamento sessuale dei minori, e di aver poi fornito questi strumenti ai governi del Regno Unito e degli Stati Uniti. Un hacker di Bangkok, che Clark sostiene gli avrebbe venduto uno strumento di hacking e che si fa chiamare Grugq, ha negato la tesi a Wired US.

Le parole di Clark vanno forse essere prese con le pinze, vista la sua lunga storia di presunti depistaggi. Prima della sua estradizione dalla Tailandia, l’ex numero due di Silk Road aveva affermato che un agente corrotto dell’Fbi gli dava la caccia e che avrebbe potuto fornire informazioni segrete al governo tailandese in cambio della sua scarcerazione, affermazioni che non sono mai state confermate o menzionate dalla sua difesa prima della sentenza.

Guardate bene tutti – ha detto Clark in un passaggio della sua dichiarazione, rivolgendosi in modo teatrale al pubblico in aula – . Questa è probabilmente l’ultima volta che mi vedete prima che venga ucciso“.

Questo articolo è comparso originariamente su Wired US.

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Il nuovo accordo sulla privacy tra Europa e Stati Uniti

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La Commissione europea ha adottato il nuovo accordo sul trasferimento dei dati tra l’Unione europea e gli Stati uniti. Il Data privacy framework arriva dopo l’annullamento degli accordi precedenti da parte della Corte di giustizia europea, a causa dell’assenza di tutele adeguate da parte degli Stati Uniti. Tuttavia, l’organizzazione per i diritti digitali Noyb si prepara a portare anche questo accordo davanti alla Corte, perché sembrerebbe una copia dei vecchi regolamenti.

Il Data privacy framework entrerà ufficialmente in vigore l’11 luglio 2023. Secondo il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders, che ha presentato il nuovo quadro normativo, gli Stati Uniti garantiranno un livello di protezione adeguato a tutti i dati personali trasferiti dall’Unione europea alle società statunitensi, in modo analogo a quello garantito all’interno della stessa Unione.

Dall’11 luglio in poi, i dati personali raccolti in Unione europea potranno ricominciare a essere trasferiti liberamente alle società statunitensi che parteciperanno all’iniziativa, senza bisogno di ulteriori garanzie per la protezione dei dati. I dati potranno quindi essere condivisi solo con quelle aziende che si impegneranno, sottoscrivendolo, a rispettare l’accordo.

Le imprese che firmeranno il Data privacy framework dovranno quindi impegnarsi a rispettare elevati standard e obblighi in materia di privacy, compreso l’obbligo di cancellare i dati quando non sono più necessari per lo scopo per cui sono stati raccolti e garantire la continuità della protezione quanto i dati vengono condivisi con terze parti.

L’accordo cerca poi di risolvere il problema dell’accesso incondizionato ai dati personali da parte delle agenzie di intelligence statunitensi, che nel quadro del nuovo framework dovrebbero avere solamente un accesso limitato e proporzionato a queste informazioni. Inoltre, istituisce un organo speciale, la Data protection review court (Dprc), a cui i cittadini europei potranno rivolgersi in caso di violazione delle nuove garanzie, che potrà ordinare la cancellazione dei dati ottenuti o trattati illegalmente.

La Commissione si impegna a operare revisioni periodiche del Data privacy framework, assieme ai rappresentanti europei e statunitensi delle autorità per la protezione dei dati. Il primo esame verrà effettuato entro un anno dall’entrata in vigore del regolamento, al fine di verificare che tutti gli elementi pertinenti siano stati pienamente attuati nel quadro giuridico statunitense e funzionino in maniera adeguata.

Le critiche di Noyb

Il nuovo regolamento non ha convinto il gruppo per la difesa dei diritti digitali Noyb, guidato dall’attivista e avvocato Max Schrems. Per l’organizzazione, infatti, gli Stati Uniti attribuiranno alla parola “proporzionato” un significato diverso da quello della Corte di giustizia, così da assicurare alle agenzie di intelligence la possibilità di continuare a usare i dati personali europei più o meno come vogliono.

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Cosa sappiamo sulla cocaina trovata alla Casa Bianca

Author: Wired

I servizi segreti degli Stati Uniti hanno trovato della cocaina nella biblioteca della Casa Bianca, residenza del presidente del paese. Le indagini sono scattate nel pomeriggio di domenica 2 luglio, dopo che il personale ha segnalato la presenza di una polvere bianca, di natura ignota e provenienza sconosciuta, nell’edificio, durante un’ispezione di routine.

Dopo il rinvenimento della strana polvere, l’intera casa Bianca è stata evacuata brevemente per consentire l’intervento delle forze di sicurezza e delle squadre speciali dei vigili del fuoco, esperte di sostanze e materiali pericolosi. E proprio i vigili del fuoco sono stati i primi a segnalare l’origine della sostanza.

“Abbiamo una barra gialla che indica la presenza di cloridrato di cocaina”, avrebbero detto alla radio gli operatori, come riportato dal Washington Post, che per primo ha dato la notizia. La scoperta ha fatto innalzare i livelli di sicurezza della residenza dei Joe Biden, che in quel momento si trovava a Camp David, un’altra casa presidenziale situata nelle montagne del Maryland settentrionale.

Al momento risulta in corso un’indagine sulle “cause e le modalità di ingresso” della sostanza nella Casa Bianca. In altre parole, i servizi di sicurezza stanno interrogando il personale e visionando le riprese di sorveglianza per capire chi ha portato la cocaina nella biblioteca della sede della presidenza degli Stati Uniti, nella domenica pomeriggio del 2 luglio 2023.

Non è la prima volta

In base a quanto riporta il Guardian, comunque, non sarebbe certo la prima volta che qualcuno porta delle sostanze nella Casa Bianca. Gli archivi dell’emittente Weta, il principale media di Washington, raccontano come la cantante del gruppo rock psichedelico Jefferson Airplane, Grace Slick, abbia tentato di mettere dell’Lsd nel tè del presidente repubblicano Richard Nixon, purtroppo senza successo.

Mentre sia il rapper Snoop Dogg, che il cantante Willie Nelson e l’attore britannico Erkan Mustafa hanno dichiarato di aver fumato della cannabis nella Casa Bianca. Chi in un bagno, chi sul tetto, chi proprio durante la campagna “just say no” della first lady Nancy Regan, anche lei repubblicana e moglie del presidente repubblicano Ronald Regan.