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Economia Tecnologia

La Cina investe per essere autosufficiente nei semiconduttori

Author: Wired

L’autosufficienza nel settore dei semiconduttori. È questo l’obiettivo in vista del quale la Cina, come riporta l’agenzia Reuters, ha istituito il suo terzo fondo di investimento statale per rilanciare il comparto con un capitale sociale di 344 miliardi di yuan, pari a 47,5 miliardi di dollari.

Soprattutto negli ultimi due anni il paese asiatico ha dedicato risorse importanti nell’industria dei chip. Le motivazioni di tale accelerata sono legate soprattutto alle misure di controllo sulle esportazioni messe in atto dagli Stati Uniti, convinti che la Cina potesse utilizzare tecnologie avanzate a stelle e strisce per potenziare le proprie capacità militari.

Il terzo fondo di investimento per l’industria dei circuiti integrati cinesi sarebbe stato ufficialmente istituito il 24 maggio e sarebbe il più grande di quelli lanciati dal China integrated circuit industry investment fund, anche noto come Big Fund. Secondo quanto risulta a Tianyancha, società cinese che gestisce database di informazioni sulle aziende, il maggiore azionista sarebbe il ministero delle Finanze della Cina, che ne deterrebbe una quota pari al 17%, per un capitale versato di 60 miliardi di yuan. Il secondo in tale speciale classifica sarebbe invece la China Development Bank, con una quota del 10,5%, a cui farebbero compagnia altri istituti creditizi, come per esempio la Industrial and commercial bank of China e la China construction bank.

Il primo fondo fu costituito nel 2014, con un capitale sociale di 138,7 miliardi di yuan. Il secondo risale invece al 2019 e vi fu dedicato un investimento pari a 204 miliardi di yuan. Nel tempo, il Big Fund ha finanziato le due più grandi fonderie di semiconduttori della Cina: la Semiconductor Manufacturing International e la Hua Hong Semiconductor. La terza fase lanciata dal governo cinese si concentrerà invece soprattutto sull’attrezzatura per la produzione dei chip.

Alla notizia hanno intanto reagito molto bene le azioni cinesi del comparto, che hanno fatto registrare un aumento superiore al 3%, ottenendo il guadagno giornaliero più grande del mese di maggio.

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Economia Tecnologia

Perché il terremoto a Taiwan preoccupa le big tech

Author: Wired

Il terremoto che ha colpito Taiwan il 3 aprile, il più violento degli ultimi 25 anni nell’isola asiatica, con un bilancio provvisorio di 9 morti e 821 feriti, rischia di avere serie ripercussioni anche sulla produzione globale di semiconduttori. Come riporta Bloomberg, il paese asiatico ricopre infatti un ruolo fondamentale nell’industria mondiale dei chip avanzati che sono alla base, tra gli altri, degli smartphone, dei veicoli elettrici e dei principali strumenti di intelligenza artificiale.

I danni del terremoto a TaiwanTerremoto a Taiwan, le immagini del sismaGallery32 Immaginidi Kevin CarboniGuarda la gallery

In seguito alla calamità, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Co (Tsmc), maggior produttore di chip al mondo, che conta tra i propri clienti colossi come Apple e Nvidia, ha fermato alcuni macchinari e fatto evacuare il personale dalle proprie sedi. Lo stesso ha fatto la rivale locale United Microelectronics nei propri hub di Hsinchu e Tainan. Quanto basta per mettere in allarme le big tech mondiali, considerando che da Taiwan arriva una fetta tra l’80 e il 90% dei chip di fascia alta. I macchinari per la produzione di chip sono molto delicati, pertanto il sisma potrebbe aver provocato anche piccoli danni che ne potrebbero compromettere il funzionamento.

In particolare, a soffrire di un eventuale stop prolungato alla produzione dei semiconduttori potrebbe essere il comparto dell’intelligenza artificiale, già peraltro provato dalla breve interruzione del 3 aprile. D’altronde l’amministratore delegato di OpenAI Sam Altman e il suo omologo di Nvidia Jensen Huang già in passato hanno manifestato preoccupazione riguardo alla scarsità dei chip utili alla realizzazione di nuovi strumenti.

La scelta strategica di Tsmc è da anni la stessa: l’azienda taiwanese ha concentrato sull’isola i propri impianti di produzione, dando così la possibilità agli ingegneri di lavorare insieme, condividendo le proprie competenze. Se già le interruzioni nella catena di produzione causate dalla pandemia avevano portato Stati Uniti, Europa e Giappone a esortare la società a costruire nuovi impianti all’estero, lo stop che il terremoto ha imposto alle fabbriche e potrebbe imporre alle esportazioni potrebbe potenzialmente accelerare la realizzazione delle sedi di Tsmc in Giappone e negli Stati Uniti, paesi in cui comunque l’azienda non avrebbe intenzione di spostare la produzione dei chip più avanzati.

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Economia Tecnologia

I Paesi del G7 vogliono investire nei cavi internet nell’Artico

Author: Wired

VeronaInvestire in cavi internet sottomarini nel mar Artico. È questo uno degli impegni presi dai paesi del G7, il forum intergovernativo che riunisce le sette economie più avanzate del pianeta (Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Italia, Canada e Giappone), al primo appuntamento ministeriale del G7, di cui Roma ha la presidenza per il 2024. “Lavoreremo per progetti di comunicazione sottomarina nel mar Artico e nel Pacifico, per mettere in sicurezza la trasmissione dei dati”, ha detto il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso.

Dossier telecomunicazioni

C’è in particolare un progetto, quello di un cavo internet nell’Artico, messo sul tavolo al G7 del 2023, a guida giapponese. Obiettivo: creare una connessione diretta tra Giappone, Europa e Nord America, bypassando la Russia. E l’Artico è la via più breve per collegare le tre sponde del blocco. Una partita che si è fatta più urgente all’incrinarsi dei rapporti tra Stati Uniti e Cina, ma anche all’indomani degli attacchi a quattro cavi internet che passano attraverso il mar Rosso, snodo mondiale non solo dello scambio delle merci, ma anche delle informazioni, dato che da là passa il 17% del traffico globale di dati.

Un dossier esiste. È quello di Far North Fiber, 17mila chilometri di lunghezza, promosso da tre operatori di telecomunicazioni in Finlandia, Stati Uniti e Giappone (rispettivamente Oy, Far North Digital e Arteria networks) e affidato ad Alcatel submarine networks, il più importante sviluppatore di queste infrastrutture (parte del gruppo Nokia). Consegna prevista nel 2027. Al cavo è interessata anche la Commissione europea, che nel 2023 ha varato un’iniziativa sulle comunicazioni nell’Artico, così come la Nato, che ha istituito un coordinamento nello stesso anno, dopo il danneggiamento del cavo che collega l’arcipelago delle Svalbard alla Norvegia nel gennaio 2022. Al G7 di Verona e Trento, dedicato a industria e digitale e prima delle venti tappe in programma in diverse città italiane e che culmineranno a metà giugno con l’incontro dei capi di Stato a Borgo Egnazia, in Puglia, il gruppo di ministri ha preso un impegno anche nell’investimento in reti quantistiche.

Le sessioni di lavoro

All’incontro nella città veneta, nel palazzo della Gran Guardia, dirimpetto all’Arena, hanno preso parte anche le delegazioni dell’Unione europea, capeggiata dalla vicepresidente con delega al digitale, Margrethe Vestager, e di Corea del sud, Ucraina e Arabia saudita. I lavori sono stati suddivisi in tre momenti. Nella prima sessione è emersa una concertazione tra i paesi del G7 di allineare le regole per sviluppare in modo coordinato intelligenza artificiale, quantum computing e altre tecnologie di frontiera. In particolare, a guidare il lavoro sull’AI sarà il cosiddetto processo di Hiroshima, un metodo per stabilire norme comuni sul settore avviato durante il G7 giapponese. A ottobre è prevista un nuovo vertice ministeriale su tecnologia e industria, per mettere nero su bianco in un documento i progressi raggiunti e trasferire il dossier alla presidenza del 2028, affidata al Canada.

La seconda sessione ha messo a fuoco i problemi delle catene di approvvigionamento da cui dipendono le nazioni del G7 per svincolarsi e stabilire una politica comune sugli investimenti. A partire dai semiconduttori. La terza sessione, a cui hanno partecipato anche delegati dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), agenzia delle Nazioni unite, ha fissato come obiettivo la realizzazione di un hub per l’AI, per diffondere conoscenza e competenze a livello globale.

L’investimento di Silicon Box

Al tavolo del G7 Urso si è seduto sicuro dell’investimento da 3,2 miliardi da parte di Silicon Box, startup di Singapore specializzata in chiplet, minuscoli circuiti integrati grandi come granelli di sabbia. L’impianto dovrebbe generare 1.600 posti di lavoro. L’ad dell’azienda, Byung Joon Han, che ha partecipato a una riunione preliminare dei rappresentanti delle imprese, il B7, ha spiegato di voler far partire l’investimento entro il 2024. Ancora non è noto dove sorgerà la fabbrica né a quanto ammonti le agevolazioni concesse dal governo, tema su cui Urso non si è voluto esprimere.

Il ministro ha detto che l’investimento nasce a valle di una serie di incontri con 80 aziende della microelettronica portate avanti dalla task force dedicata del suo ministero e condotte nel 2023. Tra questi vi sono aziende di Taiwan, della Corea del sud, del Giappone e degli Stati Uniti. Tra queste Intel, che aveva intenzione di avviare anche in Italia un impianto nella filiera dei chip ma poi ha ritirato la proposta. La scorsa estate Silicon Box ha visitato diversi siti nel Belpaese e si orientata per insediarsi nel nord Italia. Secondo Urso quello della startup di Singapore è il primo di una serie di annunci: “Altri investimenti seguiranno nei prossimi mesi”.

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La nuova stretta degli Stati Uniti sull’export di chip in Cina

Author: Wired

Negli ultimi mesi, gli ordini di chip H800 da parte delle aziende tecnologiche cinesi – tra cui Bytedance (la società che controlla TikTok), Baidu, Alibaba e Tencent – avrebbero raggiunto i 5 miliardi di dollari. Non è chiaro se queste vendite andranno in porto prima dell’entrata in vigore delle nuove norme.

In occasione di un evento tenutosi a Pechino questa settimana, il gigante cinese delle ricerche online Baidu ha annunciato una nuova versione del suo modello linguistico più avanzato, Ernie 4.0, sostenendo che le sue prestazioni sono pari a quelle del modello AI alla base di ChatGPT. Baidu ha dichiarato di aver utilizzato decine di migliaia di chip per addestrare Ernie 4.0, senza specificarne il tipo. Una fonte dell’azienda, che ha chiesto di rimanere anonima perché non autorizzata a parlare della questione, ha però confermato l’utilizzo di chip Nvidia.

Le nuove regole vieteranno alle aziende statunitensi di vendere chip sulla base della loro velocità di calcolo e densità di potenza. Anche se il governo statunitense non ha li ha citati esplicitamente, i chip H800 sono ampiamente considerati un obiettivo dei nuovi controlli.

Secondo Allen le nuove restrizioni sulle attrezzature per la produzione di chip potrebbero essere importanti quanto l’inasprimento sulle vendite. Mentre i controlli precedenti si basavano sull’uso finale, le ultime regole vietano anche la vendita di alcune apparecchiature, impedendo così alle aziende cinesi di acquistarle omettendo come intendono sfruttarle.

Le reazioni

Le limitazioni imposte dal governo statunitense l’anno scorso sono state molto discusse dai produttori di chip statunitensi, alcuni dei quali sarebbero restii a ulteriori controlli.

La Semiconductor industry association, un organismo che rappresenta le aziende statunitensi produttrici di chip, ha diffuso una dichiarazione in risposta alle nuove norme, segnalando la propria preoccupazione: “Riconosciamo la necessità di proteggere la sicurezza nazionale e riteniamo che mantenere l’industria dei semiconduttori statunitense in buona salute sia una componente essenziale per il raggiungimento di tale obiettivo – si legge nella dichiarazione –. Controlli unilaterali e troppo ampi rischiano di danneggiare l’ecosistema dei semiconduttori statunitensi senza promuovere la sicurezza nazionale, perché incoraggiano i clienti stranieri a rivolgersi altrove. Di conseguenza, esortiamo l’amministrazione a rafforzare il coordinamento con gli alleati per garantire condizioni di parità per tutte le aziende“.

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La guerra dei chip tra Cina e Stati Uniti si fa più dura

Author: Wired

Tanto tuonò che alla fine piovve. A causa di venti in arrivo non solo da Ovest, come accaduto diverse volte negli scorsi anni, ma ora anche da Est. La chip war si intensifica e lo fa con una mossa improvvisa della Cina, che ha introdotto delle restrizioni alle esportazioni di gallio e germanio, due metalli critici per la produzione di semiconduttori ad alte performance, ma anche con applicazioni fondamentali nel settore delle telecomunicazioni e nella costruzione di veicoli elettrici. Non una mossa inaspettata. Nel corso del tempo, più volte si era previsto che Pechino potesse muoversi per limitare le spedizioni degli elementi su cui ha un vantaggio strategico, in risposta alle crescenti restrizioni introdotte dagli Stati Uniti per provare a impedire o limitare l’accesso del rivale asiatico alla tecnologia più avanzata in materia di microchip.

L’annuncio è arrivato lunedì 3 luglio, a poche ore di distanza da un altro annuncio, quello della visita della segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen, a Pechino dal 6 al 9 luglio. Un “regalo di benvenuto” non esattamente gradito per Washington. “In conformità con le disposizioni pertinenti della Legge sul controllo delle esportazioni della Repubblica popolare cinese, Legge sul commercio estero della Repubblica popolare cinese e Legge doganale della Repubblica popolare cinese, al fine di salvaguardare la sicurezza nazionale e interessi nazionali, con l’approvazione del Consiglio di Stato, si decide di attuare controlli sulle esportazioni di articoli legati al gallio e al germanio”, si legge nel comunicato del ministero del Commercio che fa dunque menzione esplicita di quanto siano strategici i due metalli nel contesto della sicurezza nazionale agognata dal presidente cinese Xi Jinping anche in materia di chip, su cui ha più volte chiesto di perseguire l’autosufficienza tecnologica.

Bandiera di SamsungI chip riavvicinano Corea del Sud e Giappone

Il disgelo tra Tokyo e Seul porta Samsung, il principale colosso di microchip sudcoreano, ad aprire un impianto di sviluppo a Yokohama. Una mossa dall’alto valore strategico, che può cambiare gli equilibri nella contesa tecnologica a livello regionale e non solo

Perché la Cina blocca gallio e germanio

Che cosa cambia con la mossa del governo cinese? Il gallio e il germanio, insieme ai loro composti chimici, saranno soggetti a controlli sulle esportazioni per proteggere la sicurezza nazionale cinese a partire dal primo agosto. Gli esportatori dei due metalli dovranno richiedere licenze al ministero del Commercio se vorranno iniziare o continuare a spedirli fuori dal Paese e dovranno comunicare i dettagli degli acquirenti esteri e delle loro richieste.

Pechino è il produttore globale dominante di entrambi i metalli. Secondo il Critical Mineral Intelligence Centre del Regno Unito, la Cina rappresenta circa il 94% della produzione mondiale di gallio. Un dominio sfruttato, sul gallio, nello sviluppo delle infrastrutture di rete 5G. Così come il germanio, il gallio ha un ruolo nella produzione di una serie di semiconduttori composti, che combinano più elementi per migliorare la velocità e l’efficienza della trasmissione. Sebbene questi metalli siano rintracciabili anche altrove (per esempio in Corea del Sud, Giappone, Russia e Ucraina) la Cina ha fondato una sorta di dominio perché ha sin qui rifornito il mondo in modo altamente vantaggioso prezzo, avendo mantenuto bassi i costi estrattivi e di lavorazione. Entrambi i metalli sono infatti sottoprodotti della lavorazione di altre materie prime come il carbone e la bauxite, la base per la produzione di alluminio.