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Cosa si è deciso finora a Cop28, la conferenza sul clima dell’Onu

Author: Wired

DubaiCop28, la conferenza sul clima delle Nazioni unite, si avvicina al primo giro di boa a una settimana dall’inizio con la prima bozza del testo sul global stocktake, cioè il primo “tagliando” sugli impegni presi dai Paesi che hanno sottoscritto l’accordo di Parigi siglato nel 2015 per ridurre le emissioni e contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi rispetto al periodo pre-industriale.

Definire il global stocktake è il compito di questa Cop. Il documento, di 24 pagine, contiene ancora molti punti controversi. La principale è l’eliminazione delle fonti fossili (il cosiddetto phase out), menzionata fin dalla prima bozza, un unicum nelle negoziazioni di Cop. Tuttavia alcuni paesi, Arabia Saudita in testa, hanno chiarito che non intendono accettare l’opzione. Vedremo dove arriveranno le negoziazioni.

Il nuovo fondo di compensazione

Cop28 è partita con il piede sull’acceleratore. Nella giornata di apertura è arrivato l’accordo sul nuovo fondo su loss and damage, ossia le compensazioni per le perdite e danni causati dalla crisi del clima. Lo strumento era nato a Sharm el Sheik nella passata edizione. Mancavano, però, i dettagli operativi. L’interim della gestione è della Banca Mondiale, con disappunto di un blocco di paesi che ritengono l’istituzione troppo prona agli interessi dell’Occidente. In compenso questa componente sarà ben rappresentata nel consiglio. Sono arrivate anche le prime promesse di finanziamento: gli Emirati Arabi mettono 100 milioni, così come la Germania, cui si è aggiunta l’Italia (stessa cifra). Gli Stati Uniti assicurano solo 17 milioni, il Giappone 10 milioni. Un primo passo, anche se nettamente insufficiente: secondo gli esperti potrebbero servire quattrocento miliardi all’anno.

Un accordo per triplicare le rinnovabili. E uno sull’agricoltura

Triplicare le rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030: questo l’impegno sottoscritto da 118 i paesi nella giornata di sabato 2 dicembre. La regia è stata di Europa, Stati Uniti ed Emirati arabi. Tra i firmatari anche Brasile, Nigeria, Australia, Giappone, Canada. Nel documento si parla anche di bloccare i finanziamenti agli impianti alimentati a carbone.

Sono invece 134 i paesi che hanno firmato un testo per integrare l’agricoltura nei piani climatici nazionali. Quella ad alto impatto ambientale è, infatti, responsabile di un quarto delle emissioni serra globali. L’agricoltura può avere un ruolo anche nel sequestro del carbonio attraverso il cosiddetto carbon farming, che sfrutta la naturale capacità del suolo di immagazzinare anidride carbonica e di utilizzarla per migliorarne alcune caratteristiche come la fertilità.

L’inclusione della salute nel programma

Per la prima volta a Cop28 è stata dedicata una intera giornata alla salute. Un passo che consente di allargare l’orizzonte delle conferenze al di fuori della nicchia degli specialisti del clima. Nella dichiarazione su clima e salute, firmata da 123 Stati, l’impegno è a considerare – oltre ai danni fisici causati da caldo, alluvioni, frane e altri eventi estremi – anche l’impatto psicologico. Non solo: tra gli obiettivi c’è anche la riduzione delle emissioni dell’industria sanitaria e del comparto ospedaliero.

Triplicare il nucleare

Venti paesi hanno firmato una dichiarazione con cui si chiede di triplicare il ricorso all’energia nucleare entro il 2050 e di riconoscere ufficialmente il ruolo dell’atomo nel raggiungere le zero emissioni nette, l’obiettivo principale di tutte le conferenze sul clima. Tra gli elementi chiave, anche l’invito alle istituzioni finanziarie internazionali, a partire dalla Banca Mondiale, a incoraggiare l’inclusione dell’energia atomica nella politiche di prestito. Tra i firmatari, Francia, Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Marocco, Polonia, Romania, Svezia, Ucraina, Emirati arabi. Il problema sono i tempi: le emissioni vanno ridotte entro il 2030 e il piano rischia di non essere compatibile con queste necessità.

Troppi partecipanti

Giovedì 7 dicembre è il giorno di pausa del carrozzone di Cop28. Ottantamila i partecipanti, nuovo record che praticamente raddoppia il precedente di Sharm el Sheik (cinquantamila). Un problema serio per gli organizzatori, specie che per chi dovrà accollarsi il compito in futuro. Peraltro, manca ancora la località di Cop29, che si sarebbe dovuta svolgere in Europa seconda la rotazione delle macro-aree mondiali che regola le assegnazioni, ma vede l’opposizioni della Russia.

È il paradosso dell’inclusività – dice Jacopo Bencini, policy advisor della rete di scienziati Italian Climate Network -. Si è risposto sì alle richieste di incremento badge da parte delle delegazioni, che si sono costruite delle professionalità di cui nei primi anni non disponevano e le portano con sé per dare forza all’azione negoziale; ma si è risposto in maniera affermativa anche alle nuove richieste di rappresentanza da parte di media, osservatori e società civile”. Senza parlare dei lobbisti, un esercito che cresce di anno in anno e comprende molti grandi gruppi coinvolti nelle fonti fossili, in grado di mettere pressione ai governi e ai negoziatori. Quest’anno si è toccato il numero record di 2.456 persone con legami con l’industria del petrolio e delle fonti fossili, secondo la stima della ong Global Witness. Molti di più dei negoziatori dei Paesi più vulnerabili: 1.509.

La conferenza di Schlein

A Cop28 si è palesata anche la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, che in collegamento dall’Italia ha presentato le proposte sul clima. Stop a nuove trivellazioni, ha detto Schlein, e più aiuti economici per le fasce deboli, la ricetta per attirare anche gli scettici verso i temi della transizione energetica. La leader si è detta preoccupata per la risalita del populismo sulle tematiche ambientali. A domanda di Wired sulla riuscita delle buone intenzioni in voti a livello continentale alle prossime europee di maggio, Schlein ha allargato le braccia e affermato di non averne la certezza: “Ma non si può inseguire il quotidiano. Stiamo provando a seminare per il futuro, che è senz’altro questo”.

Le ipotesi sull’esito

Difficile fare previsioni sull’esito. La certezza è che Cop28 vede contrapposti blocchi di paesi. Quelli più poveri, guidati da colossi come la Cina e India e da attori che vogliono smarcarsi dalla leadership statunitense, hanno la massa critica per far pesare la richiesta di una transizione energetica sostenibile sotto il piano socioeconomico. “Le semplificazioni giornalistiche non aiutano – afferma a Wired Chiara Martinelli, direttrice della rete di ong Can Europe -. Sento parlare di fallimento, ma per la prima volta, per esempio, si parla con questa forza di ritiro dai combustibili fossili”. Non resta che aspettare la fine, prevista per il 12 dicembre.

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Le leggi contro la comunità lgbtqia+ impediscono di debellare l’hiv

Author: Wired

Le leggi che in 67 paesi vietano alle persone di vivere liberamente il proprio orientamento sessuale o di genere stanno ostacolando i progressi nell’eliminazione dell’Hiv. Gli ordinamenti restrittivi delle libertà personali emarginano e stigmatizzano queste comunità, impedendo loro di poter accedere ai servizi sanitari che possono salvare vite e bloccare la diffusione del virus.

Il primo dicembre è la Giornata mondiale contro l’Aids, la sindrome potenzialmente mortale dovuta all’infezione da Hiv, e le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme sul pericolo di un aumento dei casi, anche a causa delle leggi contro la comunità lgbtqia+. Mentre l’agenzia delle Nazioni Unite UnAids ha lanciato un appello globale per decriminalizzare l’omosessualità, come “passo cruciale” per migliorare la salute di tutte e tutti.

Il problema è particolarmente grave in Africa, dove si trovano circa la metà dei 67 paesi che proibiscono la libera scelta dell’orientamento sessuale o di genere. In questi stati, secondo i dati dell’organizzazione UnAids, i tassi di diffusione sono circa cinque volte più alti tra gli uomini gay, rispetto ai paesi in cui le relazioni omosessuali non sono criminalizzate. Una crisi che dipende da vari fattori, tra cui la scarsa diffusione dei profilattici o le leggi discriminatorie, e che colpisce anche la comunità eterosessuale.

Per esempio, su 120 paesi che hanno dichiarato di avere un piano per incrementare l’uso dei preservativi, solo 39 ne hanno approvato la promozione nelle scuole e solo 21 ne hanno permesso la distribuzione. Mentre in soli 11 paesi africani è stato approvato l’uso dell’anello vaginale contro l’Hiv, che rilascia un farmaco in grado di bloccare l’infezione lungo la durata di un mese.

Oltre a persone gay e transgender, i gruppi più colpiti sono gli utilizzatori di droghe per via endovenosa e lavoratori e lavoratrici del sesso. Ma ad alto rischio di infezione si trovano anche tutte le ragazze e le giovani donne adolescenti dell’Africa subsahariana, con 3.100 persone tra i 15 e i 24 anni che contraggono l’Hiv ogni settimana, circa il 77% delle nuove infezioni tra i giovani a livello globale. Questo gruppo è particolarmente colpito a causa delle violenze di genere e al rifiuto di fare educazione sessuale nelle scuole.

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Perché Cop28, la conferenza globale sul clima, parte con il piede sbagliato

Author: Wired

Il 30 novembre negli Emirati arabi uniti, inizierà la ventottesima Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, la Cop28, ma il paese ospite ha pianificato di sfruttare questa occasione per siglare accordi di estrazione dei combustibili fossili tra le proprie compagnie e i paesi partecipanti. Insomma, alla vigilia della sua partenza, la Cop28 si prospetta molto più incentrata sul sostegno alle energie fossili, che sul loro abbandono per il raggiungimento di emissioni zero.

La scelta di affidare la Cop28 agli Emirati e mettere a capo della conferenza Sultan Al Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale Adnoc, è stata a lungo criticata come potenzialmente decisiva per il suo fallimento. Molti hanno denunciato i possibili conflitti di interessi derivati dal doppio ruolo di Al Jaber e da quello degli Emirati come uno dei maggiori produttori di petrolio mondiali e le ultime rivelazioni hanno ulteriormente minato la fiducia nell’evento.

Il Center for Climate Reporting, che ha collaborato con la Bbc a questa inchiesta, è riuscito a entrare in possesso dei documenti preparati dal team di Al Jaber in vista degli incontri bilaterali tra il presidente della Cop28 e i rappresentanti di 27 governi presenti alla conferenza. Oltre alle questioni legate al tema centrale dell’evento, la crisi climatica, i documenti includono “punti di discussione” e “richieste” da presentare ai vari paesi da parte di Adnoc e Masdar, la società di energie rinnovabili degli Emirati, entrambe dirette da Al Jaber.

Tra questi si trovano offerte di collaborazione con la Cina per estrarre gas naturale in Mozambico, Canada e Australia, la richiesta al Brasile di “garantire l’allineamento e l’approvazione” dell’offerta di Adnoc per acquistare la maggioranza nella più grande società petrolifera e del gas dell’America Latina, la Braskem, il “sostegno” alla Colombia nello sviluppo delle sue risorse fossili e altre 12 proposte per l’estrazione di gas e petrolio con altrettanti paesi, tra cui Germania ed Egitto.

In più, i documenti vanno anche a suggerire una linea politica comune agli altri paesi produttori di petrolio, come l’Arabia Saudita e il Venezuela, con la raccomandazione di spigare che “non c’è conflitto tra lo sviluppo sostenibile delle risorse naturali di un paese e il suo impegno nei confronti del cambiamento climatico”. Non proprio la verità, dato che anche i processi estrattivi sono inquinanti e le stesse Nazioni Unite, promotrici della conferenza, hanno rimarcato l’importanza fondamentale dell’abbandono dei combustibili fossili in tutto il mondo per riuscire a contenere l’aumento delle temperature al di sotto di livelli potenzialmente catastrofici.

Oltre a essere completamente in contrasto rispetto agli obiettivi e alla stessa ragion d’essere della Cop28, il piano per concludere accordi commerciali durante la conferenza rappresenta una grave violazione degli standard di condotta che ci si aspetta dal paese ospite e dal presidente dell’evento, stabiliti dall’organismo delle Nazioni Unite responsabile dei negoziati sul clima, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

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Anche l’Onu crea il suo comitato di esperti sull’intelligenza artificiale

Author: Wired

La prima riunione è il calendario per venerdì 27 ottobre. E segna l’insediamento ufficiale del nuovo Comitato per l’intelligenza artificiale voluto dalle Nazioni Unite. Un gruppo di circa quaranta esperti è chiamato ad affiancare il Palazzo di vetro e la comunità internazionale nello sforzo di darsi regole comuni e approcci condivisi sull’AI. Presieduto da Amandeep Singh Gill, inviato per la tecnologia del segretario generale dell’Onu, António Guterres, l’AI Advisory body mette intorno al tavolo personalità dal mondo della ricerca, della politica e del terzo settore.

Da padre Paolo Benanti, docente alla Pontificia università gregoriana e da pochi giorni inserito anche nel comitato che dovrà fornire consulenza al governo italiano in merito alla sua strategia sull’intelligenza artificiale, a James Manyika, vicepresidente senior in Alphabet, la casa madre di Google. Da Marietje Schaake, già eurodeputata olandese e ora direttrice delle politiche internazionali del Centro per le politiche cyber dell’università di Stanford, a Mira Murati, la responsabile tecnologica di OpenAI, la startup che ha sviluppato ChatGPT. Ci sono colossi come Microsoft e aziende innovative in campo AI come Hugging Face, che investe su un modello fondativo open source. In fondo all’articolo l’elenco completo dei componenti del collegio.

L’Onu ha molto investito sulle nomine dell’AI Advisory body. Intorno al tavolo ha riunione persone con diversi percorsi di formazioni, valori, espressioni politiche, partendo da circa duemila candidature e proposte dai governi. È il tentativo di scrivere una strategia di ampio respiro. E al tempo stesso il suo più grande ostacolo. Anche perché uno dei compiti più urgenti sarà quello di tirare una riga su quelli che sono i rischi e i benefici dell’intelligenza artificiale, indicare come può spingere il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e rafforzare la cooperazione internazionale.

L’altro problema sono i tempi. Il Palazzo di Vetro si aspetta di ricevere le prime raccomandazioni per la fine dell’anno. Il che presuppone una discussione molto veloce tra voci che esprimono posizioni molto lontane da solo. Se non al capo opposto, come Abeba Birhane, consulente senior sul controllo dell’AI alla fondazione che presiede Mozilla e il motore di ricerca, Firefox, e il ministro per l’Intelligenza artificiale degli Emirati arabi, Omar Sultan Al Omana. Il rischio è che questo documento contenga poco, mentre le raccomandazioni finali dovranno arrivate in tempo per il Summit del futuro dell’Onu, in calendario a settembre 2024. Peraltro, come ha spiegato Singh Gill, “le raccomandazioni non saranno obbligatorie”. Al Wired Next Fest di Milano proprio l’inviato per la tecnologia ha lanciato un allarme AI per le prossime elezioni: “Metà della popolazione mondiale andrà a elezioni il prossimo anno – gli Stati Uniti, l’Unione europea, l’India e molte altri paesi – e oggi vediamo esempi di deepfake più facili da produrre e molto più convincenti. Non c’è più bisogno di avere un’enorme bot farm, si può sfruttare l’AI generativa. Se non riusciamo più a distinguere la verità dalle menzogne, si avvelena tutto il processo democratico. È un rischio reale. Dobbiamo pensare oltre le soluzioni tecniche e alle responsabilità condivisa tra sviluppatori, utenti e pubblico”.

Manca anche chiarezza sul tipo di forma che avrà il comitato. Non è stato ancora deciso se, dopo i primi lavori, sarà convertito in un’agenzia, come quella per l’energia atomica, o un gruppo di esperti di alto livello, come quello del panel intergovernativo sul cambiamento climatico. All’Onu non mancano formule da sperimentare. E l’ultima variabile sono i regolamenti sull’AI in discussione in giro per il mondo. La Cina si è dotata delle sue regole, l’Unione europea è alle battute finale del suo AI Act, il Regno Unito prepara un summit internazionale per stabilire la sua politica in materia e negli Stati Uniti le big tech e i più importanti sviluppatori del settore, come OpenAI e Anthropic, hanno messo sul piatto 10 milioni di dollari per un fondo sulla sicurezza. Ogni paese vuole portare acqua al suo mulino. Per il comitato dell’Onu non sarà facile tenere la barra dritta.

I componenti del collegio

  1. Anna Abramova, direttrice del Moscow State Institute of International Relations
    (Mgimo) – University AI Centre, Russia;
  2. Omar Sultan Al Olama, ministro per l’Intelligenza artificiale, Emirati arabi uniti;
  3. Latifa Al-Abdulkarim, deputato della Shura, il parlamento saudita, e docente di Computer science alla King Saud University, Arabia saudita;
  4. Estela Aranha, consulente speciale del ministero della Giustizia del Brasile;
  5. Carme Artigas, segretaria di Stato per la digitalizzazione e l’intelligenza artificiale di Spagna;
  6. Ran Balicer, responsabile innovazione e vicedirettore di Clalit Health Services Israel, Israele;
  7. Paolo Benanti, docente alla Pontificia università gregoriana, Italia;
  8. Abeba Birhane, consulente senior sul controllo dell’AI alla Mozilla Foundation, Etiopia;
  9. Ian Bremmer, fondatore di Eurasia Group, Stati Uniti;
  10. Anna Christmann, coordinatrice Aerospazio del governo federale tedesco;
  11. Natasha Crampton, responsabile AI Officer di Microsoft, Nuova Zelanda;
  12. Nighat Dad, direttore esecutivo della Digital Rights Foundation in Pakistan;
  13. Vilas Dhar, presidente della Patrick J. McGovern Foundation, Stati Uniti;
  14. Virginia Dignum, docente di AI responsabile alla Umeå University, Portogallo;
  15. Arisa Ema, docente all’università di Tokyo, Giappone;
  16. Mohamed Farahat, vicepresidente dell’Internet governance forum del Nord Africa, Egitto;
  17. Amandeep Singh Gill, inviato per la tecnologia del segretario generale dell’Onu;
  18. Wendy Hall, docente di Computer Science all’università di Southampton, Regno Unito;
  19. Rahaf Harfoush, antropologo digitale, Francia;
  20. Hiroaki Kitano, responsabile tecnologico di Sony, Giappone;
  21. Haksoo Ko, presidente del Garante della privacy della Corea del Sud;
  22. Andreas Krause, docente a ETH Zurich, Svizzera;
  23. James Manyika, vicepresidente senior in Alphabet per ricerca, società e tecnologia, Zimbabwe;
  24. Maria Vanina Martinez Posse, ricercatrice all’Artificial Research Institute, Argentina;
  25. Seydina Moussa Ndiaye, docente alla Cheikh Hamidou Kane Digital University, Senegal;
  26. Mira Murati, responsabile tecnologica di OpenAI, Albania;
  27. Petri Myllymaki, docente al dipartimento di Computer Science dell’università di Helsinki, Finlandia;
  28. Alondra Nelson, docente all’Institute for Advanced Study, Stati Uniti;
  29. Nazneen Rajani, capo ricerca a Hugging Face, India;
  30. Craig Ramlal, a capo del gruppo sistemi di controllo all’University of The West Indies a
    St. Augustine, Trinidad e Tobago;
  31. He Ruimin, responsabile AI del governo di Singapore;
  32. Emma Ruttkamp-Bloem, docente all’università di Pretoria, Sud Africa;
  33. Sharad Sharma, cofondatore della Fondazione iSPIRT, India;
  34. Marietje Schaake, direttrice delle politiche internazionali del Centro per le politiche cyber dell’università di Stanford, Paesi Bassi;
  35. Jaan Tallinn, cofondatore del Cambridge Centre for the Study of Existential Risk, Estonia;
  36. Philip Thigo, consulente del governo del Kenya;
  37. Jimena Sofia Viveros Alvarez, capo legale del giudice Justice Loretta Ortiz alla Corte suprema del Messico;
  38. Yi Zeng, direttore del Brain-inspired Cognitive AI Lab all’Accademia cinese delle scienze;
  39. Zhang Linghan, docente all’Institute of Data Law della China University of Political
    Science and Law.
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A Gaza non c’è più acqua

Author: Wired

A questa aggressione ne sono seguite altre, poi scontri nelle città abitate sia dai palestinesi che dagli israeliani, diversi palestinesi sono rimasti uccisi o sono stati incarcerati e dopo settimane di violenze Hamas ha lanciato alcuni razzi contro Israele, tutti abbattuti dallo scudo missilistico Iron Dome. A questo inutile attacco, Israele ha risposto con bombardamenti a tappeto, che non hanno risparmiato nemmeno gli edifici in cui si trovavano le sedi di Associated Press e Al Jazeera.

Due anni dopo, di acqua a Gaza non ce n’è quasi più. Il primo ministro scozzese, Humza Yousaf, ha dichiarato alla Bbc che i suoi familiari intrappolati nella striscia stavano dividendo sei bottiglie d’acqua tra 100 persone, secondo il Guardian i residenti sono così idratati da urinare appena una volta ogni uno o due giorni e Reuters riporta che molti stanno bevendo acqua salata. Una crisi umanitaria che non tocca la Tel Aviv del leader Benjamin Netanyahu, ormai persa nel militarismo più estremo, tanto da sospendere i visti ai funzionari delle Nazioni Unite, perché il segretario generale Antonio Guterres gli ha ricordato di rispettare i diritti umani.

La desalinizzazione

Negli anni, le ripetute devastazioni causate dai bombardamenti israeliani e dagli embarghi sui materiali necessari per la ricostruzione, hanno lasciato Gaza con una rete idrica di tubature a malapena funzionante. Per questo, gran parte della popolazione si affida da tempo a circa un centinaio di impianti di desalinizzazione dell’acqua, gestiti da privati, spesso mal funzionanti e impossibili da riparare, sempre a causa dei divieti imposti da Israele sull’importazione di certi componenti all’interno della Striscia.

Ora, a seguito delle ultime settimane di bombardamenti e di chiusura totale della Striscia, anche questa rete idrica di emergenza è stata completamente distrutta. I principali impianti di desalinizzazione pubblici di Gaza sono fuori uso, così come tutte le stazioni di pompaggio della rete idrica, gli impianti di trattamento delle acque reflue sono fuori servizio e si rischia che queste vadano a contaminare le falde acquifere potabili, infine, gli impianti di desalinizzazione privati non possono funzionare senza il carburante che aziona i generatori elettrici a cui sono collegati, ma Israele ha promesso che non farà entrare una goccia di benzina a Gaza fino alla fine dello scontro.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la mancanza di acqua nella Striscia sta precipitando in una crisi umanitaria che va oltre la sete e rischia di diventare una crisi sanitaria. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari ha dichiarato nel fine settimana di aver “rilevato casi di varicella, scabbia e diarrea, attribuibili alle scarse condizioni igienico-sanitarie e al consumo di acqua proveniente da fonti non sicure. L’incidenza di queste malattie è destinata ad aumentare, a meno che le strutture idriche e igienico sanitarie non ricevano elettricità o carburante per riprendere le operazioni”.