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Perfect Days probabilmente è il miglior film di Wim Wenders

Author: Wired

Perfect Days probabilmente è il miglior film di Wim Wenders

In due ore Perfect Days fa innamorare di questa vita apparentemente priva di tutto (il protagonista abita in una casa spoglia in cui esiste solo l’essenziale) ma in realtà scremata del superfluo, in cui a trionfare è l’ideale del bene comune. Ci saranno difficoltà, questioni da risolvere, personaggi negativi e tutto quello che solitamente avviene nei film, eppure ciò che rimane più impresso è questa cura di qualcosa che appartiene a tutti, rappresentata nella maniera che meno ci si aspetta, dalla pulizia dei bagni. Questo, già nelle intenzioni di Wenders, è il punto del film: provare a girare una storia che riavvicini tutti quelli che la guardano all’idea di bene pubblico, alla sua cura e all’immensa soddisfazione che esiste nell’unire la coltivazione dei consumi culturali (il protagonista fa foto su rullino oltre come detto a leggere e ascoltare musica), a una routine lavorativa semplice e ai rapporti occasionali con le persone che incontra o i ristoranti in cui mangia.

Un po’ come per i primi minuti di Wall-E, anche qui lo svolgersi delle giornate non ha bisogno di grandi parole. Soprattutto non ne ha bisogno Koji Yakusho, veterano del cinema giapponese, star locale ma anche noto al pubblico occidentale perché negli anni Duemila è stato uno dei giapponesi ricorrenti a Hollywood, cioè uno dei 3-4 attori che vengono chiamati quando c’è da interpretare qualcuno che viene dal Giappone (sta in Babel, Memorie di una geisha e L’ultimo ballo, per fare solo alcuni titoli). Yakusho anima un film che lo prevede in quasi tutte le inquadrature recitando una serenità e una pace così contagiose, che nel vedere Perfect Days è veramente difficile non desiderare di essere al suo posto. A un livello più profondo di lettura poi esiste una passione per la possibilità di riprendere una città, i suoi ritmi e l’identità che può esistere tra lo spirito di quell’aggregato urbano e quello dei personaggi che sono inseriti che è un piacere nel piacere. Wenders trova la storia giapponese, per riprendere il Giappone, le sue armonie, il gusto estetico, la cura e la precisione. Tutto è sia nel personaggio sia in cio che è intorno a lui.

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L’anno in cui i lavoratori si sono rivoltati contro l’intelligenza artificiale

Author: Wired

Questo, a sua volta, ha portato a un maggiore interesse per le tutele che il lavoro organizzato può offrire ai lavoratori, anche se alcuni sindacati sembrano essere rimasti indietro. In un recente articolo pubblicato sull’Harvard Business Review, il professore di ingegneria del Mit Yossi Sheffi ha scritto che la miopia su questi temi si ripercuote sia sui lavoratori che sui datori di lavoro e che anche altre industrie avrebbero dovuto “prendere a cuore” ciò che stava accadendo a Hollywood.

Con l’avanzare dell’AI nel 2023, è diventato chiaro che i sindacati sono solo una parte della resistenza. Gli autori, preoccupati che grandi modelli linguistici fossero stati addestrati utilizzando i loro libri, hanno intentato una serie di cause contro OpenAI, Meta, Microsoft e altre aziende. Lo stesso hanno fatto gli artisti nel campo delle arti visive, mettendo nel mirino sistemi come Stable Diffusion, Midjourney, DeviantArt e altri ancora. Nessuna di queste cause è arrivata a una conclusione, e c’è chi sostiene che le rivendicazioni sul copyright non siano il modo giusto per impedire ai bot di rubare i lavori creativi. Ad ogni modo però, queste cause hanno trasformato i tribunali in un altro campo di battaglia in cui gli umani si sono opposti all’incursione dell’AI.

Gli scenari futuri

Verso la fine dell’anno, anche i governi sono entrati in gioco. All’inizio di novembre, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo che tenta, tra l’altro, di limitare l’impatto dell’AI sul lavoro. I sindacati americani, tra cui la Sag, hanno elogiato la mossa, che è arrivata nel momento in cui leader mondiali stavano arrivando nel Regno Unito per un vertice sulla sicurezza dell’AI, dove hanno cercato di contenere le minacce dell’apprendimento automatico e di sfruttarne allo stesso tempo le potenzialità.

Questa è sempre stata la parte difficile. Dai tessitori agli scrittori, molte persone usano le macchine per migliorare il loro lavoro. Come vi diranno i sostenitori dell’AI, l’automazione è utile, e la tecnologia può coltivare nuove forme di creatività. Le persone possono scrivere libri con l’intelligenza artificiale, creare nuovi stili, o anche costruire generatori di Seinfeld. Alcuni sceneggiatori di Hollywood usano gli strumenti AI per fare brainstorming. L’ansia nasce quando il capo di una casa di produzione chiede a ChatGPT di scrivere un nuovo film su un gatto e un poliziotto che sono migliori amici. A quel punto non c’è più bisogno di autori.

Al momento, i chatbot non sono in grado di scrivere sceneggiature, comporre romanzi o dipingere come Caravaggio. Ma la tecnologia si sta evolvendo così rapidamente che questo scenario sembra ormai imminente. Quando Sam Altman è stato licenziato per qualche giorno da OpenAI a novembre, sono circolate ipotesi sulla possibilità che l’azienda stesse sviluppando la sua tecnologia troppo velocemente, e che le sue ambizioni commerciali avessero sopraffatto la missione altruistica.

Con il ritorno di Altman nel ruolo di amministratore delegato, Microsoft ha ottenuto un posto nel cda della società. Curiosamente, il colosso aveva offerto posti di lavoro ai dipendenti di OpenAI durante la crisi dell’azienda, e lo stesso ha fatto Salesforce. Questo è servito a ricordare che l’AI è sì pronta a eliminare molti posti di lavoro, ma crea anche posti di lavoro nel settore. In futuro, la probabilità che l’intelligenza artificiale soppianti molti lavori di base e ne crei alcuni altamente qualificati sembra elevata. La domanda principale in questo momento è se queste macchine stanno imparando dagli esseri umani le loro abilità o i loro pregiudizi.

Questo articolo è comparso originariamente su Wired US.

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Il film che ci racconta il lato tenero dell’AI

Author: Wired

Her – un film di Spike Jonze che racconta la storia di un uomo che si innamora di un sistema operativo intelligente – uscì dieci anni fa, nel 2013, ottenendo grandi consensi. Guardandolo oggi, le qualità che i critici avevano riconosciuto all’epoca sono ancora evidenti. È una pellicola delicata e malinconica, un po’ stucchevole ma senza esagerare. In Her (Lei, nella versione italiana), tuttavia, c’è anche qualcos’altro che spicca. Sebbene sia ambientato in un futuro prossimo, il film coglie il tecno-ottimismo dell’America di Obama meglio di qualsiasi altro film. È una capsula del tempo, che conserva i sogni sul futuro di quegli anni, che appaiono sempre più ingenui più ci si allontana dagli anni Dieci.

Her si svolge in una versione stilizzata di Los Angeles, in un futuro prossimo dove il protagonista – un ex giornalista di La Weekly diventato scrittore di lettere d’amore, interpretato da Joaquin Phoenix – si muove sullo sfondo di uno skyline ancora in grado di rivaleggiare con quello di Shanghai. Nel film, la creazione del primo sistema operativo intelligente al mondo – un software di consumo in grado di apprendere e pensare come un essere umano – è uno sviluppo recente ed entusiasmante.

Il baffuto e solitario Theodore Twombly è tra i primi ad acquistare uno di questi nuovi sistemi operativi. Il software, che si chiama Samantha ed è doppiato da Scarlett Johansson nella versione originale, diventa rapidamente la presenza più importante nella vita dell’uomo. Ben presto Theodore comincia a definirla “la sua ragazza”. Anche se l’espressione “intelligenza artificiale generale” non viene mai usata nel film, le capacità di Samantha sono assimilabili a quelle dell’Agi: “Ho intuito – spiega Samantha –. Ciò che mi rende me stessa è la mia capacità di crescere attraverso le mie esperienze”. A rivederlo oggi, in una fase in cui i progressi dell’intelligenza artificiale dominano il dibattito nel settore tecnologico, è interessante osservare l’approccio un po’ tenero di Her nei confronti dell’ascesa delle AI. L’amore di Theodore verso Samantha, tuttavia, non è destinato al lieto fine. Verso la fine della storia, l’uomo verrà sconvolto dalla rivelazione che Samantha ha altri seicento partner.

Sullo schermo però il poliamore di Samantha rappresenta semplicemente la prova che lei e Theodore non sono compatibili, e non come una condotta sinistra da parte di un’intelligenza artificiale crudele. Il sistema operativo intelligente è ritratto come intrinsecamente buono, un’entità sensibile e gentile che non nutre nessuna ostilità volontà nei confronti degli esseri umani che l’hanno creata.

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Il Ritorno del Re ha 20 anni e continuiamo a rimpiangerlo

Author: Wired

Il Ritorno del Re compie vent’anni e questo mi fa, ci fa, sentire molto vecchi. Ma più ancora, fa sentire il cinema molto vecchio, al netto della risalita recente di film in grado di proporsi come evento, come momento emotivo collettivo. La realtà è che usciti dalla sala, consci che il viaggio che ci aveva offerto Peter Jackson era finito, ci sentimmo tutti più tristi, più poveri, come svuotati. Questo è forse l’indizio più importante di quanto la Trilogia de Il Signore degli Anelli sia stata in grado di creare qualcosa di unico, di irripetibile, e quanto questo film (al netto di qualche piccolo difetto) rappresenti dopo un ventennio, un patrimonio comune di inestimabile valore.

L’ultimo tassello di una trilogia unica nella storia

Con Il Ritorno del Re Peter Jackson si trovò di fronte ad una fatica da Ercole: curare la post-produzione di tutto ciò che aveva girato tra il 2001 e 2002, in un iter creativo che ancora oggi rappresenta una delle più grandi sfide cinematografiche di tutti i tempi. Il fatto che il montaggio definitivo sia stato terminato ad un mese solamente dall’uscita in sala, rende l’idea della dimensione pachidermica del girato da Jackson, togliendo ogni argomentazione a chi ha visto nelle sue Director’s Cut una mera opera di commercializzazione. La quantità di scene tagliate dalla versione cinematografica qui si nota molto di più che negli altri due film, il che ha reso a volte il ritmo forse non così fluido. Ma non si può non riconoscere che Jackson riesce dove tanti altri, in saghe e anche universi cinematografici venuti dopo, con dietro ben altro supporto e mezzi, hanno fallito: darci un finale vero, autentico, compiuto e armonioso dal punto di vista narrativo.

Il tutto naturalmente unendo (come suo solito) l’amore per il cinema del passato (così come per i b movie e il cinema di genere) con la capacità di innovare, di stupire con una messa in scena visiva che qui, più ancora che ne Le Due Torri, riportò il concetto di kolossal cinematografico al centro dell’esperienza cinematografica per il grande pubblico. Il Ritorno del Re aumenta rispetto alle versioni precedenti la complessità e maestosità di una messa in scena per la quale Jackson sarebbe stato nuovamente criticato da una fetta di fandom Tolkeniano, per l’eliminazione o modificazione di personaggi ed eventi. Lavoro di mediazione totale quello della Trilogia del resto, con un occhio saldamente rivolto alla mitologia in senso totale, non solo dell’autore. Con questo si intende anche quella lontana dalla religiosità, piuttosto creata dalla Storia, dall’interpretazione della stessa dalla letteratura, l’arte e la musica, di cui riecheggia l’eco per ogni singolo minuto.

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Siamo stati alla mostra su J.R.R. Tolkien alla Galleria Nazionale di Roma

E no, non ci ha convinto

Ed allora, ecco che ne Il Ritorno del Re disastro e vittoria si scambiano di posto mentre seguiamo Frodo, Sam, lo stupefacente Gollum di Andy Serkis, nel loro viaggio alienante verso Mordor. Questo film non ha forse da Elijah Wood un’interpretazione così convincente come in precedenza, anche per necessità di iter, ma compensano tutto un Sean Astin e un Serkis, capaci di porsi come simbolo della doppia faccia della moralità e della vita. Dall’altra parte c’è il fragore delle armi con Aragorn, Gandalf, Legolas, Gimli, che portano Re Theoden alla testa di quello che è e rimane il momento più epico della storia del cinema: la carica di cavalleria che chiunque, a qualunque età, ha sognato di poter cavalcare nei propri sogni ad occhi aperti. C’è n’è un’altra di carica, fatale e malinconica, ed è l’ennesima connessione che Jackson fa fare al suo racconto con la memoria storica di cadute e sconfitte narrate da poeti e quadri. Pipino canta e intanto si va a morire tra l’indifferenza, come a Balaclava o a Gettysburg, per il volere del potere.

La cavalcata meravigliosa con cui Jackson ci porta assieme a Gandalf in quella Minas Tirith sull’orlo del baratro è, ancor più che nell’assedio de Le Due Torri, il risvegliare la memoria delle grandi cadute, della fine di un’era. La città della Torre d’avorio è come la Constantinopoli di Costantino XI, Gerusalemme invasa dai crociati, Cartagine che fu grande potenza, tutte circondate da orde senza pietà. Howard Shore, completa un trittico che è stato (giustamente) indicato come la più grande colonna sonora di tutti i tempi, unica per raffinatezza, complessità. Pure in quelle note c’è la traccia di un legame profondo tra Il Signore degli Anelli e la saga dei Nibelunghi, e quindi Wagner, quel recupero costante di un tema da sviluppare con una diversità totalizzante, da connettere allo specifico momento narrativo. Il che ci conferma che ne Il Ritorno del Re, abbiamo un contenitore trasversale del racconto epico non solo cinematograficamente inteso.

Un film in grado di abbracciare l’epica narrativa in senso universale

Il male ne Il Ritorno del Re si pone con una molteplicità di forme, anche quella umana, con Denethor, folle e perduto come certi Imperatori o Re, come il “Macbeth” di Shakespeare che Jackson valorizza in modo assoluto. Il film ha un crescendo titanico, perfetto, a tratti si avverte una tensione incredibile. “Non voglio trovarmi in una battaglia, ma aspettare sull’orlo di una che non posso evitare è ancora peggio” confessa Pipino a Gandalf, mentre il respiro prima del grande balzo del Negromante Re si materializza di fronte a Frodo, Sam e Gollum, in una visione da incubo norreno. Già, Gollum. Al di là della resa visiva rivoluzionaria, è e rimane il personaggio chiave, con cui parlare della dannazione del potere, della distruzione dell’anima generata dalla cupidigia e la sua evoluzione qualcosa di terribile. La fine di tutte le cose è però anche l’inizio di tutte le cose, è il cambiamento che Jackson rende in modo perfetto e così facendo onora, nel profondo, Tolkien, la sua generazione tornata distrutta dalle trincee.

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Con Garfield: Una missione gustosa torna il gattone più amato di sempre

Author: Wired

Nato alla fine degli anni Settanta come striscia a fumetti, il gatto ideato da Jim Davis e chiamato Garfield è divenuto immediatamente uno dei personaggi più amati nell’immaginario mondiale. Oggetto di diversi adattamenti tra cui alcune serie animate, è stato oggetto di due film nel 2004 e nel 2006, ma ora è pronto a tornare sul grande schermo in una versione tutta nuova. S’intitola infatti Garfield: Una missione gustosa, il nuovo film di animazione targato Sony Pictures e diretto da Mark Dindal. Scritta da David Reynolds, già noto per aver scritto cult per ogni generazione come Alla ricerca di Nemo e Le Follie dell’Imperatore, la nuova pellicola avrà anche un cast di doppiatori originali d’eccellenza, come Chris Pratt che dà la voce al personaggio principale e Samuel L. Jackson che sarà invece il padre Vic.

Come si vede nel primo trailer diffuso in queste ore, il nuovo film torna proprio alle origini, quando Garfield è un piccolissimo micio abbandonato per strada che, seguendo il suo infallibile fiuto per la pizza, incontra Jon, che diventa il suo insostituibile “padrone” (in realtà Garfield sostiene di averlo adottato lui). A un certo punto la paciosa vita di questo gattone, tutto impegnato a odiare i lunedì, divorare lasagne e sfuggire all’ennesimo bagnetto, viene interrotta dal ritorno del padre Vic, che l’aveva abbandonato molto tempo prima e che ora lo spinge a intraprendere una pericolosa e soprattutto molto scomoda avventura tra ferrovie e vicoli sporchi. Con lui il fido amico, il saggio cane Odie.

Nel cast originale del film troviamo altri nomi molto nomi come Harvey Guillén (What We Do in the Shadows) che dà la voce proprio a Odie, e poi Hannah Waddingham e Brett Goldstein di Ted Lasso, Nicholas Hoult e molti altri. Garfield: Una missione gustosa sarà nelle sale a partire dal prossimo maggio.