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Come funzionano le elezioni in India

Author: Wired

L’elefante va alle urne. Tra aprile e maggio 2024 in India si terrà una delle tornate elettorali più lunghe della sua storia post-indipendenza. Nell’arco di sei settimane, quasi 950 milioni di elettori (più dell’intera popolazione di Stati Uniti, Unione europea e Russia messi insieme) potranno esercitare il loro diritto di voto e determinare la composizione del prossimo governo, nonché il destino di Narendra Modi, primo ministro in carica, e del suo partito, il Bharatiya Janata Party (Bjp).

I numeri di quella che è considerata la più grande democrazia al mondo sono pachidermici. Il Paese conta oltre 960 milioni di cittadini aventi diritto di voto, tra cui circa 470 milioni di donne, 19 milioni di giovani che votano per la prima volta e 197 milioni di elettori ventenni. L’affluenza alle elezioni è generalmente elevata: il record si è toccato nel 2019, quando si sono presentati alle urne il 67% dei votanti (quasi 615 milioni di persone). Quest’anno scommettono gli osservatori, dopo che l’India ha superato la Cina come paese più popoloso del mondo, questo precedente potrebbe venire polverizzato. Ma vaste elezioni richiedono alti costi: secondo le stime, i partiti hanno speso oltre 7 miliardi di dollari nelle elezioni parlamentari del 2019 e la cifra potrebbe raddoppiare per questa tornata elettorale.

Cosa si vota?

Quel che gli elettori sono chiamati a decidere è chi siederà nella camera bassa del Parlamento indiano, il Lok Sabha o Camera del popolo, la più potente delle due camere che compongono il parlamento indiano. Che è bicamerale e comprende anche il Consiglio degli Stati (o Rajya Sabha). Il partito o la coalizione che ottengono la maggioranza nel corso di queste elezioni nominerà uno dei suoi membri eletti come primo ministro, il quale sarà chiamato a indicare i ministri che prenderanno parte al gabinetto. Il sistema elettorale indiano è maggioritario e multipartitico: vince il candidato che riceve più voti.

Quando si vota?

A causa delle dimensioni del Paese, la votazione non può avvenire in sicurezza in contemporanea in tutti gli stati, ma è divisa in sette fasi e ci vorranno quasi sei settimane per completarle, dovendo tenere conto di fattori come gli estremi climatici, i festival culturali e le ricorrenze religiose. Le date annunciate dalla commissione elettorale sono il 19 aprile, 26 aprile, 7 maggio, 13 maggio, 20 maggio, 25 maggio e 1° giugno. In alcuni stati come Bihar, Bengala occidentale e l’Uttar Pradesh la votazione si estenderà per tutti e sette i giorni. In altri, come Arunachal Pradesh e Sikkim, avrà luogo in un giorno. In totale, 44 giorni effettivi, perché il risultato sarà reso noto il 4 giugno: si tratta del secondo esercizio elettorale più lungo nella storia elettorale del subcontinente dopo le prime elezioni, svolte nell’arco di cinque mesi tra settembre 1951 e febbraio 1952.

Gli sfidanti

Il partito attualmente al potere e in cerca di una terza conferma è il Bharatiya Janata Party, formazione politica nazionalista hindu guidata dal primo ministro Narendra Modi, salito al potere nel 2014. Nelle precedenti elezioni del 2019 ha ottenuto 303 seggi. La coalizione di cui il Bjp è parte, l’Alleanza democratica nazionale (Nda) ha ottenuto un totale di 352 seggi – in altre parole, una maggioranza schiacciante. A questo giro, il primo ministro in carica ha annunciato che punta a 370 seggi per il Bjp e oltre 400 per la Nda, il che costituirebbe un risultato senza precedenti. Quello di Modi è stato un decennio che ha visto il governo alle prese con alcune delle più importanti sfide per il Paese sia a livello social-economico (infrastrutture antiquate e la mancanza di acqua pulita e servizi igienici), sia a livello di visibilità internazionale: digitalizzazione, allunaggio, moneta elettronica, energie rinnovabili ma anche accuse di controllo (se non di repressione, soprattutto delle minoranze) hanno caratterizzato questi anni.

Lo sfidante principale è l’Indian National Congress o più semplicemente Congress, guidato da Mallikarjun Kharge, il primo presidente negli ultimi 24 anni di storia del partito a non chiamarsi Gandhi di cognome: dopo gli ultimi due disastrosi passaggi elettorali, la famiglia erede politica di Jawaharlal Nehru e di sua figlia Indira Gandhi, due anni fa ha fatto un passo indietro. Alcuni analisti sostennero all’epoca che si trattasse di tentativo da parte della famiglia Gandhi (la madre Sonia, nata in Italia, il figlio Rahul e la figlia Priyanka) di far apparire il partito come meno “dinastico” e smorzare le critiche di Modi, che ha spesso definito il partito di opposizione un “affare di famiglia”. La coalizione di opposizione, nata l’anno scorso, nasce da una sua alleanza con altri partiti regionali: si chiama Indian national developmental inclusive alliance o in altre parola (le sigle sono grande passione del subcontinente) India. Ne fanno parte, non senza periodiche crisi, un ampio ventaglio di partiti, dall’All India Trinamool Congress (il potente partito al governo nello stato del Bengala occidentale), il partito dell’uomo comune Aap (che guida non senza problemi la capitale Delhi) e il Dravida munnetra kazhagam (che governa il Tamil Nadu), fino a partiti più piccoli come il Partito comunista di liberazione (marxista-leninista) e la Lega musulmana.

Il voto

In base alle regole elettorali indiane, deve esserci un seggio elettorale entro 2 chilometri da ogni abitazione, il che spiega perché una parte non marginale dei 15 milioni di lavoratori (tra i quali molti insegnanti) coinvolti nel processo elettorale devono attraversare mari e monti, letteralmente, tra isole, ghiacciai, deserti, giungle, per assicurare ai concittadini il diritto di voto. Ogni fase elettorale durerà un giorno, di conseguenza varie circoscrizioni elettorali voteranno nelle stesse 24 ore.

Le elezioni così scaglionate consentono al governo di spostare le forze dell’ordine nelle varie aree, prevenire episodi di ressa o violenza, ma anche trasportare funzionari elettorali e macchine per il voto – il quale è espresso elettronicamente usando oltre 1,7 milioni di macchine per il voto elettronico a registrazione diretta, che rilevano i voti immediatamente, non sono collegate a Internet e stampano le ricevute. Una curiosità: le macchine elettorali prevedono anche il tasto chiamato Nota, ovvero Nessuno dei precedenti (None of the above).

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Perché si dice che alle elezioni in Portogallo ha vinto l’estrema destra

Author: Wired

“Deus, Pátria, Família”: era il motto di António de Oliveira Salazar, il dittatore fascista del Portogallo, il cui regime fu deposto dalla rivoluzione dei garofani il 25 aprile 1974. Ma è anche il motto cui si rifa André Ventura, il leader del movimento populista di destra Chega, vero vincitore delle elezioni legislative portoghesi di domenica 10 marzo. Il quale, al trittico ha aggiunto anche trabalho, ovvero lavoro.

Luís Montenegro, il leader della coalizione di centrodestra Alleanza democratica, aveva chiesto agli elettori una maggioranza che gli consentisse di governare in autonomia. I 79 seggi ottenuti, contro i 77 del Partito socialista che governava fino alla scorsa settimana, non sono però sufficienti. Né basteranno gli 8 dei liberali di Iniciativa Liberal. Per questo Ventura già pensa che i suoi 48 parlamentari, il quadruplo dei 12 ottenuti alle legislative di due anni fa, possano essere la chiave per entrare in un governo di centrodestra.

Come andrà a finire, lo dirà soltanto il tempo. Come si è arrivati, però, a questa situazione? I dati delle urne raccontano di un Portogallo diviso in tre. Ecco i risultati visualizzati su una mappa.

Come si vede, il Norte più industrializzato ha votato per Alleanza democratica, mentre il Centro, la regione centro meridionale dell’Alentejo e l’area metropolitana di Lisbona hanno confermato la fiducia al Partito socialista. L’Algarve, regione a vocazione turistica dell’estremo sud del Portogallo, ha invece premiato Chega, che solo qui è primo partito. Questa mappa mette a confronto i risultati dei tre principali partiti portoghesi, sempre a livello regionale.

Alleanza democratica oscilla tra il 16,7% ottenuto nella regione di Beja, nel sud dell’Alentejo, e il 40% ottenuto a Bragança, nell’estremo nord. Il Partito socialista, invece, si muove tra il 34,2% di Castelo Branco, nel Centro, e il 19,8% ottenuto nell’isola di Madeira, celebre per aver dato i natali al calciatore Cristiano Ronaldo. Nella regione di Faro, l’Algarve, l’unica in cui abbia vinto, Chega non è andata oltre il 27,2%. Mentre il risultato peggiore lo ha ottenuto nell’industrializzata Porto, con il 15,3%.

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“Il dittatore più cool del mondo” non è poi così tanto cool

Author: Wired

A El Salvador, piccolo stato dell’America centrale e primo al mondo ad aver dato corso legale al bitcoin, il presidente uscente, Nayib Bukele, ha dichiarato di aver vinto le elezioni presidenziali di domenica 4 febbraio. L’annuncio è stato fatto molto prima che i risultati ufficiali fossero pubblicati e diffusi, in linea con lo stile sempre più autoritario del leader, che si definisce spesso “il dittatore più cool del mondo”. Nei cinque anni di mandato di Bukele, salito al potere nel 2019, gli osservatori internazionali, tra cui Amnesty International, hanno denunciato una “allarmante regressione” dei diritti umani, si legge su Reuters. Tutto è cominciato con la guerra contro le bande criminali di narcotrafficanti, che fino a pochi anni fa avevano reso El Salvador il paese con il più alto tasso di omicidi di tutta l’America Latina.

La lotta ai narcotrafficanti

Per contrastare questa situazione, in cui la popolazione era costretta a pagare il pizzo e le città si trovavano sotto il controllo dei mafiosi, Bukele ha trasformato il paese in uno stato di polizia, dando al governo accesso a tutte le comunicazioni private dei cittadini, introducendo i processi di massa a cui possono partecipare fino a 900 imputati in una volta e autorizzando arresti preventivi anche senza capi d’accusa.

Da ormai 3 anni, a El Salvador si può essere facilmente arrestati senza prove anche per il solo sospetto di essere parte di una banda criminale e le pene vanno da un minimo di 20 anni, rispetto ai 3 precedenti, a un massimo di 150 anni se si viene accusati anche di terrorismo. In questa contesto sono state incarcerate più di 75mila persone e Bukele ha anche inaugurato un nuovo carcere capace di ospitare fino a 40mila detenuti in una volta.

Gli omicidi sono così scesi da 53 ogni 100mila persone a 2,4 ogni 100mila persone e il potere delle bande è stato in larga parte distrutto. Tuttavia, il successo è stato accompagnato dalla soppressione di molti diritti costituzionali, da un accentramento del potere sempre maggiore su Bukele e sui suoi fedelissimi, messi ai vertici della Corte costituzionale e degli organi politici, e dall’incarcerazione del 2% della popolazione, tra cui moltissimi innocenti.

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Dobbiamo prepararci al ritorno di Donald Trump?

Author: Wired

Dopo aver stravinto le primarie del partito Repubblicano in Iowa la settimana scorsa, l’ex presidente degli Stati UnitiDonald Trump ha vinto anche quelle del New Hampshire. Non con il largo vantaggio che molti ipotizzavano, ma le ha vinte, e questo vuol dire che la partita all’interno del “Grand old party” repubblicano è in sostanza già decisa: sarà lui di nuovo il candidato alle elezioni presidenziali di novembre, dopo esserlo già stato nel 2016 e nel 2020. Era dai tempi di Grover Cleveland – 130 anni fa – che un ex presidente non tentava di essere rieletto per un secondo mandato non consecutivo dopo aver perso un’elezione presidenziale.

La sconfitta dello pseudo-trumpismo

Secondo molti non esistono rivali in grado di mettere a rischio la maggioranza di consensi che Trump ha già ottenuto tra i Repubblicani. Nikki Haley, ex ambasciatrice presso le Nazioni Unite, di gran lunga preferita dalla vecchia guardia neoconservatrice, si è dimostrata un fuoco fatuo. E pure Ron DeSantis, il governatore della Florida ancora più reazionario di Trump su immigrazione e cultura woke – oltre che grande amico di Elon Musk – ha alzato bandiera bianca. Quasi tutti gli altri sfidanti si sono ritirati nei mesi scorsi, dopo risultati disastrosi nei sondaggi.

Non è questione di mancanza di fondi. Con Haley, per esempio, si erano schierati grandi nomi dell’economia statunitense, come Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan Chase. Il problema è che alcuni si erano convinte che negli Stati Uniti ci fosse ancora spazio per un reaganismo basato su tasse leggere, posizioni moderate sulle questioni etiche e interventismo contro i nemici dell’Occidente all’estero. Ma il repubblicano medio, oggi, questa ricetta non la vuole più. Anche se, a guardare i sondaggi, la maggioranza degli statunitensi sarebbe più felice se né l’attuale presidente Joe Biden né Trump si presentassero alle elezioni.

Un terremoto in politica estera?

Molte preoccupazioni tra gli europei sono legate alla posizione che Trump potrebbe assumere nei confronti della Nato se venisse eletto presidente. Sul sito web della sua campagna presidenziale, si promuove “un riesame approfondito del senso e della missione della Nato“, e le sue precedenti dichiarazioni su un’organizzazione da lui definita “obsoleta e basata su un accordo sfavorevole a Washington sono ancora fresche nella memoria di tutti.

Quello che pare certo è che un eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca farebbe tremare Kyiv. Il neoeletto presidente, infatti, potrebbe ritirare il sostegno statunitense, lasciando l’Ucraina dipendente dalla sola assistenza europea e vulnerabile alla Russia. Ma è realistico pensare che anche Biden, una volta confermato, possa decidere di spingere l’Ucraina verso le negoziazioni, esercitando pressioni sulla presidenza di Volodymyr Zelensky affinché adotti obiettivi più realistici. Tuttavia, Trump, da sempre sprezzante nei confronti della resistenza Ucraina, potrebbe accelerare in modo brusco il disimpegno, favorendo gli obiettivi bellici della Russia.

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Alle prossime elezioni scrutatori e presidenti di seggio guadagneranno di più

Author: Wired

In attesa di capire chi ci guadagnerà dal punto di vista politico, le prossime elezioni europee, amministrative e, nel caso di Basilicata, Piemonte e Umbria, regionali – accorpate nel fine settimana dell’8 e del 9 giugno – regalano già una certezza. A incassare di più rispetto al passato saranno scrutatori e presidenti di seggio.

Come riporta Il Sole 24 Ore, oltre a stabilire la data del voto, a ripristinare la norma che elimina i limiti temporali per i sindaci nei comuni fino a cinquemila abitanti e alzare da due a tre mandati quelli per i primi cittadini dei comuni fino a 15mila, il decreto elezioni approvato dal Consiglio dei ministri dello scorso 25 gennaio introduce ghiotte novità per chi dovesse essere interessato a lavorare nelle sezioni.

Aumentando la fascia temporale in cui per i cittadini sarà possibile votare e prevedendo l’afflusso alle urne anche di sabato dalle 14 alle 22 (la domenica i seggi saranno aperti dalla mattina), il decreto ha aumentato i compensi a forfait del 30%: da 120 a 136 euro per gli scrutatori, da 150 a 195 euro per i presidenti. Nelle intenzioni dell’esecutivo, questo provvedimento dovrebbe servire a far sì che più persone si offrano per occupare ruoli fondamentali per l’appuntamento elettorale. Come sottolinea il quotidiano economico, la partecipazione in questo senso della cittadinanza è diminuita in proporzione al calo dell’affluenza al voto degli ultimi anni.

A confermare e a motivare la scelta è stato, nella conferenza stampa convocata al termine della seduta del Consiglio dei ministri, lo stesso titolare del dicastero dell’Interno Matteo Piantedosi. “È previsto – ha spiegato l’ex prefetto, tra le altre, di Roma e Bologna – un incremento del gettone di presenza per il personale ai seggi”, la cui motivazione principale risiede proprio nel fatto che “stiamo registrando negli anni – ha proseguito – una scarsa attrattività di questa funzione e una sempre minore partecipazione”.