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Lego non userà plastica riciclata per i suoi mattoncini

Author: Wired

L’azienda danese Lego non userà la plastica riciclata dalle bottiglie delle bibite per costruire i suoi famosi mattoncini colorati. Lo ha annunciato Niels Christiansen, amministratore delegato del gruppo Lego, che ha detto al Financial times che la plastica riciclata scelta per produrre mattoncini emette maggiori quantità di carbonio di quelle emesse dai materiali attualmente in uso.

La ricerca

Nel giugno 2021 Lego, che National Geographic ricorda essere “l’azienda produttrice di giocattoli più grande e redditizia al mondo”, aveva annunciato di voler produrre i suoi mattoncini riciclando bottiglie. L’azienda aveva investito 400 milioni di dollari nel progetto di ricerca, con l’obiettivo di trovare anche una soluzione ad hoc per la colorazione dei mattoncini.

Gli sforzi si sono concentrati sull’utilizzo del polietilene tereftalato, noto anche come plastica Pet. Un materiale che, come spiega Ansa, quando viene riciclato non si degrada. La plastica Pet avrebbe dovuto sostituire l’attuale materiale utilizzato per la produzione dei pezzi Lego, ovvero l’acrilonitrile butadiene stirene (Abs), che è a base di petrolio. Il Post spiega che “per ottenere 1 chilo di Abs ci vogliono circa 2 chili di petrolio”.

Tuttavia, come scrive Il Sole 24 ore, per il responsabile della sostenibilità dell’azienda danese Tim Brooks, oltre a emettere maggiori quantità di carbonio, la plastica Pet ha bisogno di “ingredienti extra che le garantiscano sicurezza e durata, nonché di grandi quantità di energia per la lavorazione e l’asciugatura”. Insomma, in fin dei conti non sarebbe conveniente dal punto di vista ambientale. L’ad di Lego sostiene che l’azienda ha studiato e condotto sperimentazioni su centinaia di materiali per raggiungere l’obiettivo di una produzione sostenibile. Tuttavia, continua Christiansen, fino ad ora “non è stato possibile trovare un materiale del genere”.

Gli obiettivi

Dopo il fallimento di questi primi due anni di ricerca Lego sta pensando di concentrarsi per migliorare l’impronta di carbonio dell’Abs attualmente in uso. La ricerca di una via sostenibile per la produzione di mattoncini, però, non si ferma qui. Come ha spiegato un portavoce della Lego alla Bbc, l’azienda rimane “pienamente impegnati a produrre mattoncini Lego con materiali sostenibili entro il 2032”. Nei prossimi due anni sono previsti 1,2 miliardi dollari di investimenti per ridurre le emissioni e passare a materiali sostenibili entro il 2032. Inoltre, l’azienda conferma di voler eliminare le confezioni di plastica monouso per impacchettare i mattoncini. Entro il 2025 l’obiettivo è di sostituirle con imballaggi di carta.

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Petrolio russo, il fiume sommerso che continua ad arrivare in Europa

Author: Wired

Dall’inizio della guerra in Ucraina, il Cremlino ha visto quasi dimezzarsi le proprie entrate da petrolio. Era questo l’intento dei paesi occidentali nell’introdurre il divieto di importare greggio via mare, insieme a un tetto al prezzo a 60 dollari al barile che vieta di assicurare carichi russi verso paesi terzi oltre quella soglia.

Ma a dispetto del più vasto regime di ritorsioni mai imposto a un’economia avanzata, le esportazioni russe di idrocarburi sono in forte crescita. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, le vendite di petrolio sono tornate ai livelli precedenti al conflitto, toccando persino i massimi dall’aprile del 2020. Che Mosca abbia trovato sbocchi alternativi all’Occidente in cui piazzare il suo greggio non è certo una sorpresa. Né che dove c’è una sanzione esista anche il modo per aggirarla. È forse più sorprendente che siano gli stessi paesi sanzionatori ad aiutare la Russia a eludere l’embargo.

Il riciclaggio del petrolio

L’indagine è del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), un think tank finlandese che studia le esportazioni russe di combustibili fossili. Secondo il Crea, Mosca nell’ultimo anno ha messo in piedi un vero e proprio sistema di riciclaggio, che consente ai paesi occidentali di violare le misure contro il petrolio russo grazie alla triangolazione con alcune potenze emergenti. Questi paesi sono equiparati a una “lavanderia”, che ripulisce il greggio proveniente dalla Russia e lo rivende sotto forma di prodotti raffinati (diesel, gasolio, carburante per aerei) all’Occidente.

A svelare il sistema è la rotta del petrolio. Dall’inizio dell’aggressione all’Ucraina, le esportazioni russe verso Cina, India, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Singapore sono salite del 140%. In particolare, da quando l’Unione europea ha introdotto l’embargo lo scorso 5 dicembre, questi cinque paesi hanno assorbito gran parte dei flussi via mare prima destinati al Vecchio continente e rappresentano oggi il 70% delle esportazioni di greggio dalla Russia.

Seguendo ancora il petrolio verso Occidente, si scopre che nell’ultimo anno i “paesi lavanderia” hanno aumentato le esportazioni di prodotti raffinati verso la coalizione che ha imposto il price cap (l’Unione europea, il resto del G7 e l’Australia): le spedizioni dalla Cina sono salite del 94%, quelle dalla Turchia del 43%, da Singapore del 33% e dagli Emirati Arabi Uniti del 23%. Per un controvalore di quasi 20 miliardi di euro. L’India, d’altro canto, è diventata la prima esportatrice di petrolio alla coalizione da quando è stato deciso il tetto al prezzo. Di contro, le esportazioni delle potenze emergenti verso tutti gli altri paesi sono aumentate solo del 2%.

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Startup, nel più grande progetto di bonifica del mondo c’è di mezzo una italiana

Author: Wired

Tra i composti su cui si lavora ci sono idrocarburi, pesticidi, contaminanti organici recalcitranti, composti organici clorurati.Ma stiamo rilevando nuovi contaminanti emergenti, come i fans (farmaci antinfiammatori non steroidei, tra cui l’ibuprofene, ndr), che finiscono nel sistema fognario e i depuratori non sono in grado di trattenere”. Non solo. Le analisi mostrano anche la presenza di Pfas, una classe di sostanze che comprende migliaia di composti usati per la produzione di schiumogeni antincendio, pesticidi, imballaggi, vernici, prodotti elettronici, padelle antiaderenti, e che appaiono nei suoli.

Sono tra le sostanze chimiche più persistenti”, afferma Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia: “Difficilmente si degradano nell’ambiente, e per essere distrutti devono essere portati a temperature superiori ai mille gradi. Non per niente vengono detti forever chemicals. I Pfas sono interferenti endocrini, tossici per la riproduzione e il feto e correlati a diverse forme tumorali. Le caratteristiche di resistenza termica, inerzia chimica, idrofobicità e lipofobicità ne hanno reso diffuso l’utilizzo. Una situazione preoccupante per la salute dell’uomo e dell’ambiente: sono stati rinvenuti in aree remote, nell’acqua, nell’uomo e persino nella pioggia. Ma, se escludiamo applicazioni come le tute antincendio dei pompieri, oggi esistono valide alternative”.

Si stanno moltiplicando le iniziative per vietare la produzione dei Pfas: come la proposta presentata da Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svezia o, recentemente, la mossa dell’amministrazione Biden negli Stati Uniti, che per la prima volta ha proposto uno standard per l’acqua potabile. Perché “i Pfas sfuggono ai processi di depurazione tradizionale e vengono ritrovati in acque di scarico e fanghi, spesso impiegati in agricoltura”, riprende Masini.

Dnd Biotech oggi fattura circa un milione e mezzo di euro, “numeri in crescita” annota l’ad. L’azienda toscana ha effettuato un percorso nell’acceleratore napoletano Terra Next, specializzato nella bioeconomy e parte della rete di Cassa depositi e prestiti. Nel futuro c’è un round di finanziamento che, afferma il manager, dovrebbe arrivare entro fine anno.

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Petrolio e gas, perché i colossi stanno chiedendo risarcimenti miliardari agli stati

Author: Wired

A proposito dell’entità dei rimborsi, si legge nel report:

Dal 2013 al 2018 l’Unione europea ha dovuto far fronte a un importo totale annuo medio di 5,5 miliardi di dollari: anche se le cause sono diminuite, gli importi medi si sono alzati. E in tutti gli altri paesi del mondo la media di richieste di risarcimento è arrivata a 25 miliardi di dollari all’anno a partire dal decennio scorso 

Su circa 620 miliardi di dollari richiesti dal 2000 tramite meccanismi Isds ne sono stati riconosciuti 96 miliardi a favore di investitori privati (9 da nazioni dell’Unione europea). Circa il 90% del totale degli Isds che hanno portato risarcimenti ad aziende nel mondo negli ultimi vent’anni ha riguardato progetti minerari ed estrattivi (77%), finanziari e assicurativi (7%), gas e approvvigionamento di energia elettrica (6%).

Il Trattato sulla carta dell’energia

Ogni Isds si basa quindi su un Ipa specifico: ad esempio, il Nafta (il famoso trattato di libero scambio nordamericano) è l’accordo che ha permesso a TransCanada di attivare un Isds per agire contro il provvedimento di stop all’oleodotto Keystone XL. Le cause via Isds che adesso stanno innescando più problemi alla transizione energetica sono legate al Trattato sulla carta dell’energia, l’Energy Charter Treaty (Cte). Come si legge nella risoluzione del Parlamento europeo citata in precedenza, oggi il Cte è l’accordo di investimento più controverso al mondo e che va urgentemente riformato: l’invito alla Commissione europea è poi di garantire che un Cte rivisto proibisca immediatamente agli investitori in combustibili fossili di citare in giudizio le parti contraenti per aver perseguito politiche di eliminazione graduale di queste fonti energetiche, in linea con gli impegni assunti nell’ambito dell’Accordo di Parigi. 

Ratificato da 50 paesi e firmato nel 1993, il Cte mira a proteggere gli investimenti energetici dei suoi aderenti. Se spesso in passato le controversie andavano a tutelare imprese europei in paesi extra-comunitari, da diversi anni sono le nazioni europee che sono diventate oggetto dei maxi-risarcimenti richiesti da aziende estrattive di tutto il mondo. Per questo, qualche mese fa e sull’onda della risoluzione del Parlamento europeo che metteva nel mirino soprattutto il Cte, la Polonia ha annunciato il ritiro dal Trattato e rapidamente l’hanno seguita Spagna, Francia, Germania, Slovenia e Paesi Bassi

Anche le ong in tribunale

La diffusione degli Isds innescati soprattutto per preservare di fatto l’estrazione di risorse fossili e non rinnovabili è un ostacolo enorme ai sempre troppo timidi tentativi delle nazioni di promuovere politiche climatiche. Al momento, si stima che sforeremo l’innalzamento dei gradi promesso alla Cop15 di Parigi: altro che 1,5, al momento andiamo dritti verso i +2,8 gradi. Per rientrare nei ranghi, dovremmo dimezzare l’estrazione di gas, petrolio e carbone da qui al 2050

incendiSe non salviamo il pianeta ora non ci riusciremo mai più

L’unico modo per scongiurare gli effetti catastrofici e irreversibili della crisi del clima è intervenire subito in modo deciso, come sottolinea l’ultimo rapporto dell’Onu

Così, anche alcune ong hanno cominciato ad usare i tribunali per forzare, in ottica “green”, le politiche nazionali: è quello che succede nelle Climate litigations, come Giudizio Universale. Oppure è il caso di Greenpeace, che ha portato in causa per la prima volta la Commissione europea per aver incluso il gas fossile e l’energia nucleare nella lista degli investimenti sostenibili della cosiddetta tassonomia verde. È anche il caso di ClientEarth, organizzazione non governativa e azionista di Shell, che ha portato in tribunale quest’ultima per non aver ancora redatto un piano che le consenta di rispettare gli obiettivi degli Accordi di Parigi. E sempre ClientEarth, insieme alla Lipu-Birdlife Italy, ha porta in causa la Ferrero per lo sfruttamento delle monocolture a nocciola in Lazio che sta depauperando la biodiversità locale, soprattutto nell’area del lago di Vico. Nella zona infatti, dopo 50 anni di coltivazioni intensive di oltre 21mila ettari a noccioli, le acque del lago registrano concentrazioni allarmanti di fitofarmaci e di sostanze chimiche di vario tipo. Sostanze che finiscono anche nelle acque potabili delle aree limitrofe. Un altro esempio di come la battaglia climatica e per la tutela della biodiversità trovi sempre più spazio nelle aule dei tribunali.

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Sciopero dei benzinai il 25 e 26 gennaio: confermato

Author: Wired

Il tavolo tecnico dell’esecutivo per scongiurare lo sciopero dei benzinai è fallito. Così le organizzazioni degli esercenti, dopo un momentaneo congelamento, hanno confermato l’agitazione su tutto il territorio nazionale durante le intere giornate del 25 e del 26 gennaio 2023. I gestori stanno criticando le scelte del governo Meloni, il decreto carburanti e l’istruttoria dell’Antitrust sulle speculazioni, ma sono rimasti aperti a bloccare lo sciopero anche un minuto prima del suo inizio, nel caso il governo dovesse sospendere alcune parti del decreto.

Una stazione di servizioLe nuove regole sul prezzo di benzina e diesel

Il governo Meloni ha imposto ai distributori di esporre il prezzo medio giornaliero del carburante a fianco a quello praticato da loro. Rinnovati i buoni benzina per i dipendenti

La questione accise

L’accusa dei rappresentanti di categoria Fegica e Figisc/Anisa al governo Meloni è di giocare allo scaricabarile sull’aumento dei prezzi del carburante, innescato dalla decisione dell’esecutivo di non finanziare più il taglio delle accise voluto dal governo Draghi, che in questo modo ha provocato un’impennata record dei costi per il carburante alla pompa di benzina. A seguito dei rincari, infatti, diversi esponenti della maggioranza hanno puntato il dito contro le speculazioni dei gestori dei benzinai, sostenendo che l’aumento dei prezzi derivasse da loro scelte personali. 

Le categorie hanno poi alzato le barricate anche a causa dell’istruttoria avviata dall’Antitrust per indagare sui petrolieri. Aperta non per verificare loro eventuali responsabilità speculative nell’aumento dei prezzi, ma per non aver vigilato sui benzinai, dopo aver riscontrato irregolarità per l’applicazione alla pompa di un prezzo diverso da quello pubblicizzato e per l’omessa comunicazione dei prezzi sul portale Osservaprezzi carburanti.

Un uomo con delle banconote in mano in una stazione di servizio4 app e siti per controllare i prezzi di benzina e diesel

Da quello ufficiale del governo alle funzioni di Google Maps, ecco 4 applicazioni utili per tenere sotto controllo i costi del carburante al distributore

Prezzi e multe

Inoltre, i benzinai stanno contestando fortemente il decreto carburanti del governo Meloni, a causa delle sanzioni da 6mila euro per gli esercenti che non rispettino l’obbligo di esporre i prezzi medi regionali. Per le organizzazioni si tratterebbe di multe sproporzionate, pari alla vendita di 180 mila litri di benzina, cioè a circa sei settimane di lavoro, secondo Bruno Bearzi, presidente della Federazione italiana gestori impianti stradali carburanti.

Su Rai News 24, Bearzi ha poi incalzato riguardo allo sciopero dei benzinai sostenendo come le sanzioni non facciano deterrenza e che i cartelli con i prezzi medi sarebbero “inutili”, “dannosi” e dovrebbero “al massimo essere tarati sull’area circostante e non a livello regionale. In più, le sanzioni potrebbero “arrivare anche alla risoluzione del contratto” e quindi a una “richiesta di danni da parte della compagnia petrolifera”, che potrebbe poi portare “alla chiusura dell’azienda di distribuzione”.

Hanno invece protestato contro le dichiarazioni dei benzinai le associazioni dei consumatori. Come si legge sempre su Rai News 24, Furio Truzzi, presidente di Assoutenti ha spiegato che denunciare le anomalie che si registrano nei prezzi dei carburanti non è gettare fango sulla categoria, così come non è un insulto chiedere più trasparenza in favore dei consumatori. Non capiamo il nesso tra la sacrosanta indagine aperta dall’Antitrust sulle irregolarità relative all’esposizione dei prezzi al pubblico, che dovrebbero essere contestate dagli stessi gestori, e lo sciopero della categoria”.