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Economia Tecnologia

Internet è diventata la nuova televisione

Author: Wired

Nel 2015, ormai un decennio fa, il saggio online The Web We Have to Save di Hossein Derakhshan fece piuttosto parlare di sé. A scriverlo era un autore iraniano che aveva trascorso i precedenti sei anni in carcere a causa delle sue attività politiche e pubblicistiche. Il saggio raccontava dell’esperienza dell’autore con internet prima e dopo il carcere: da una rete che ricordava una biblioteca, da cui era possibile passare da un contenuto all’altro seguendo liberamente i link, a una rete molto più simile alla televisione, dove i contenuti venivano offerti a flusso continuo, spinti da algoritmi il cui scopo è tenere gli spettatori quanto più all’interno delle piattaforme dove quei contenuti vengono fatti circolare. Il web, insomma, era cambiato in modo radicale nel corso degli anni che Derakhshan aveva trascorso in prigione. Dall’uscita di quel saggio – che nel frattempo è stato citato a dismisura, diventando un piccolo classico della pubblicistica digitale – sono passati altri dieci anni. Dieci anni in cui, però, internet è rimasta ferma allo stesso punto.

Lo si è detto in tantissime formule, il modo in cui si discute di internet nel dibattito pubblico è cambiato radicalmente negli ultimi anni, con oscillazioni importanti tra toni utopici e distopici, sempre per lo più enfatizzati e poco sostanziosi. È almeno dall’esplosione del caso Cambridge Analytica che impera il techlash, un, potremmo dire, spirito dei tempi particolarmente avverso e critico nei confronti della rete e dei suoi principali attori tecnologici ed economici: a farne parte sono un misto di rancore nei confronti di speranze deluse, scandali, panici morali, managerportati a testimoniare nei Parlamenti e crollo dei finanziamenti e dei guadagni. Eppure, nonostante questo clima, non “succede” mai niente online: le grandi piattaforme possono perdere fette importanti di utenti, qualche miliardo di capitalizzazione, bruciare prodotti e progetti ritenuti strategici, ma non sembra nemmeno possibile immaginare un cambio di paradigma rispetto a quello che queste aziende hanno imposto.

Una nuova tv

L’idea di Derakhshan, quella per la quale internet sarebbe diventata la nuova televisione, sembra essere più vera che mai: navigare su internet – se ancora questa immagine ha ancora senso quando gli smartphone e le app sono gli strumenti più usati in tutto il mondo – oggi è in tutto e per tutto una esperienza televisiva. A dominare sono i video e i Reel, specialmente sulle piattaforme controllate da Meta, e pompati dagli algoritmi al centro della nostra esperienza online. TikTok, con la sa crescita esponenziale, sta guidando i trend e le dinamiche del capitalismo digitale, influenzando anche le scelte strategiche della concorrenza, gli stili e i formati della comunicazione digitale, la moda, la produzione audio e video e sostanzialmente ogni altra cosa. Viviamo, in sostanza, in un mondo il cui immaginario mainstream assomiglia sempre di più a quello dei video della piattaforma cinese e con una crescente aspettativa che tutto assomigli a come le cose funzionano su TikTok stessa. Balletti compresi, distopia compresa.

Blake Chandlee, presidente soluzioni globali di business di TikTok, in una intervista pubblicata dal New Yorker nel 2022, ha rimarcato in modo netto le differenze tra la piattaforma per cui lavora e Facebook: loro sono una piattaforma social, noi siamo una piattaforma di intrattenimento. Sembra una dichiarazione banale, ma riassume candidamente, in realtà, il cambio di paradigma avvenuto negli ultimi anni per quanto riguarda la nostra vita online. Come ha scritto l’accademico Christian Fuchs, la retorica del web 2.0 imperante nei primi anni 2000, voleva che le piattaforme di rete – o almeno il loro ritratto ideologico e svuotato di qualsiasi tratto economico-politico – fossero intrinsecamente partecipative e in grado di fornire occasioni di empowerment ai loro utenti. Non si può negare che in qualche misura sia andata proprio così, come dimostra, per esempio, il ruolo importante dei social media nel coordinamento dei movimenti di protesta. In buona parte, però, quell’idea – come parte della più vasta ideologia della rivoluzione digitale, come l’ha definita invece lo storico dei media Gabriele Balbi – ha cercato di descrivere qualcosa che non si è materializzato.

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Economia Tecnologia

ChatGPT scatena lo scontro tra Microsoft e Google

Author: Wired

In questi giorni in cui si parla di ChatGPT, il bot conversazionale sviluppato da OpenAI, c’è una frase che da dieci anni è diventata il mantra di tutti i lobbisti delle big tech per frenare le critiche sul loro strapotere e sul rischio per le scelte dei consumatori in presenza di un oligopolio di pochi attori sul mercato: on the internet competition is one click away. La frase, attribuita al co-fondatore di Google Larry Page, è stata ridimensionata da molti commentatori che hanno sostenuto come negli anni in realtà, fuori dal cerchio dei Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) non ci fosse speranza di entrare sul mercato.

Se, però, i legislatori di tutto il mondo, e quelli europei in primis, col tempo hanno iniziato a frenare le acquisizioni di promettenti startup da parte di queste aziende e di limitarne i poteri con norme come il Digital Markets Act, da poco approvato, bisogna riconoscere che Page non aveva tutti i torti, e la sua Google se ne sta accorgendo.

bing chatgptBing con ChatGpt è inaccurato, permaloso e aggressivo

Il bot conversazionale può manifestare comportamenti che mettono a disagio gli utenti: ecco alcuni divertenti esempi

La fine del monopolio di Google?

Per chi fosse appena tornato da un viaggio di un mese al Polo Nord, senza connessione, qui tutto è cambiato, incluse le nostre certezze sul dove andare per fare una ricerca online. L’anno prossimo infatti potremmo non dire più googlare, ma bingare. Sì perché nel frattempo la comparsa di ChatGPT ha sparigliato le carte dimostrando poteri inaspettati come quello di resuscitare i morti, come solo le migliori soap opera e i film horror potevano fare finora. Si è tornato a parlare di Bing, il motore di ricerca di Microsoft. 

Il 7 febbraio, infatti, l’ad Satya Nadella ha annunciato l’integrazione di ChatGPT in Bing, possibile grazie al fatto che Microsoft è tra i grandi finanziatori della startup OpenAI, dietro il successo di ChatGPT. Anche il browser di Microsoft, Edge, godrà di tale integrazione, favorendo la competizione nei confronti del rivale Chrome di Google. Edge potrà, per esempio, riassumere pagine web e documenti in pochi istanti.

Anche se non è ancora disponibile per l’uso, c’è infatti una waiting list a cui ci si può iscrivere, si può già farsi un’idea di come funzionerà cliccando su uno degli esempi proposti come demo. In uno di questi si chiede a Bing un consiglio per un menu di tre portate per sei persone vegetariane. Il motore di ricerca presenta dunque una serie di risultati “classici” con a fianco una finestra in cui BingAI, alimentato da ChatGPT, dialoga e presenta una risposta corredata di fonti. 

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Economia Tecnologia

Google, perché gli Stati Uniti hanno fatto causa

Author: Wired

Google deterrebbe un monopolio illegale sul mercato della pubblicità online. Con questa accusa, il Dipartimento di giustizia e otto stati statunitensi hanno intentato una causa contro la società di Mountain View, proponendo peraltro una separazione netta tra le attività aziendali che riguardano tale settore e tutte le altre, perseguibile attraverso la cessione da parte del colosso dei prodotti tecnologici utilizzati per le prime.

Google, che attraverso i propri servizi di promozione per le aziende incassa più dell’80% dei propri ricavi, “ha utilizzato – osserva il procuratore generale Merrick B. Garlandcomportamenti anticoncorrenziali, esclusivi e illegali per eliminare o ridurre drasticamente qualsiasi minaccia al suo dominio sulle tecnologie pubblicitarie digitali”.

In particolare, “per 15 anni – prosegue – Google ha perseguito una condotta che le ha consentito di arrestare l’ascesa di tecnologie rivali, manipolare i meccanismi delle aste per isolarsi dalla concorrenza e costringere inserzionisti ed editori a utilizzare i suoi strumenti”.

La causa, che potrebbe approdare in tribunale nel prossimo settembre, non è la prima nei confronti della big tech californiana. Già nel 2020 il dipartimento aveva infatti denunciato la società con l’accusa di aver cercato di proteggere illegalmente la propria posizione monopolistica nel mercato dei motori di ricerca online.

Quella del Dipartimento di giustizia, secondo il vicepresidente per la pubblicità globale di Google Dan Taylor, “un’argomentazione errata, che rallenterebbe l’innovazione, aumenterebbe le tariffe pubblicitarie e renderebbe più difficile la crescita di migliaia di piccole imprese ed editori”.

Il dipartimento – prosegue Taylor – ci chiede di liquidare due acquisizioni che sono state esaminate dalle autorità di regolamentazione statunitensi 12 anni fa (AdMeld) e 15 anni fa (DoubleClick)” e “da allora, la concorrenza in questo settore è solo aumentata”. Il dipartimento starebbe quindi “tentando di riscrivere la storia a spese di editori, inserzionisti e utenti di Internet”.

L’attuale amministrazione – aggiunge il dirigente – ha sottolineato il valore dell’applicazione dell’antitrust nella riduzione dei prezzi e nell’ampliamento della scelta per il popolo americano. Siamo d’accordo. Ma questa causa avrebbe l’effetto opposto, rendendo più difficile per Google offrire strumenti pubblicitari efficienti”.

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Natale, tutto quello che sappiamo lo hanno deciso le aziende

Author: Wired

Ormai ci siamo: è QUEL giorno dell’anno. Natale. Con le sue luci, i regali, Babbo Natale e le canzoncine che lo accompagnano già dal primo novembre (per info: rivolgersi a Mariah Carey). Tutto sembra volerci suscitare la magia, l’atmosfera e la nostalgia per un tempo in cui non eravamo neppure nati. Ecco: quel periodo in realtà non è mai esistito. Nessuno vuol essere il Grinch della situazione, ma bisogna ammetterlo a noi stessi: il Natale che viviamo in questi giorni, come quello che abbiamo vissuto negli ultimi anni, è solo un’accozzaglia di input che il marketing ha provato a rifilarci. Riuscendoci, peraltro, visto che ne siamo rimasti plasmati. La popolarità del Natale e la sua crescente commercializzazione, sono andate di pari passo, influenzando l’un l’altra fino ad arrivare ai nostri giorni con la stagione natalizia che inizia ormai ai primi di novembre. Ed è stato proprio il marketing a stimolare entrambe queste tendenze e la storia di come tutto ciò sia avvenuto può fornirci alcuni affascinanti spunti  per capire come la società possa plasmarsi.

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Le origini del Natale commerciale

Nonostante la tradizione popolare italiana sia ricca di tradizioni e ricorrenze legate in parte al folklore e in parte alla religione (il presepe, per esempio, è una nostra “esclusiva”), anche da noi il Natale commerciale è arrivato come negli Stati Uniti solo nel Novecento. A fare da spartiacque tra un prima e un dopo del Natale commerciale c’è stato lo sviluppo dell’industrializzazione: da noi, come negli Stati Uniti (che ci hanno influenzato su più fronti) la modernità portò inizialmente una sorta di nostalgia per la semplicità della pur durissima vita precedente. La globalizazzione ha fatto il resto: spostando qui e là i simboli del Natale in giro per il mondo. Con il passare degli anni, giocò un ruolo fondamentale la Penny Press: le storie di cui parlava, così come le “pubblicità” che figuravano su questi giornali iniziarono costruire pezzi di tradizione natalizia, molti dei quali si sono cementati nella cultura popolare.

La regina Vittoria con la famiglia intorno a un albero di Natale. Credit Illustrated London News

Secondo alcuni, per esempio, la popolarità degli alberi di Natale può essere fatta risalire a un’immagine nel Godey’s Lady’s Book, la rivista più letta all’epoca, in cui la regina Vittoria e la sua famiglia posavano riuniti intorno a un abete addobbato con delle candele. Tuttavia, il vero boom del Natale è arrivato grazie alla diffusione dei grandi magazzini, che negli hanno visto un’incredibile opportunità di affari nel fare regali di Natale e hanno iniziato ad addobbarli creando l’estetica natalizia che oggi associamo al Natale. 

Altri dettagli, li dobbiamo ad alcuni imprenditori: per esempio le cartoline natalizie che vediamo nei film americani nacquero grazie al tipografo tedesco Louis Prang che voleva creare un mercato per la sua tecnologia di stampa a colori appena inventata. Per non parlare delle palline di Natale. Anche loro un prodotto di marketing: infatti, nelle immagini più antiche (e anche in alcuni film Disney) gli alberi erano solitamente adornati con delle candele. L’idea di ornamenti sferici fu del proprietario del grande magazzino FW Woolworth che decise di produrli in massa in Germania e di venderli a buon mercato. Un successo.

Coca-Cola ha plasmato l’immagine di Babbo Natale

Babbo Natale in un manifesto di Coca Cola del 1953

Babbo Natale in un manifesto di Coca Cola del 1953

Library of Congress/Getty Images

Cappello rosso con il pon pon bianco, così come la sua barba: se c’è qualcuno che non lo sapesse il vecchio paffuto che porta i regali ai bambini nella notte di Natale ce lo ha regalato Coca-Cola. Fino alle prime immagini promozionali della famosa bibita, infatti, Babbo Natale era conosciuto nella tradizione dei paesi del nord Europa e per tutti era San Nicola. La sua figura iniziò a riscuotere un certo successo negli Stati Unit grazie al poema del 1822 A Visit from St. Nicholas (ora più popolarmente noto come The Night Before Christmas). La sua figura, però, non era ben nota all’opinione pubblica: così i grandi magazzini, con un piccolo aiuto delle riviste dell’epoca, aiutarono a rimediare. 

Nel 1841 spuntò un Babbo Natale a dimensione naturale in un negozio di Filadelfia: l’idea di marketing era quella di dare alle persone la possibilità di incontrare dal vivo Babbo Natale. Ma come si è arrivati al Babbo Natale che conosciamo oggi? Fu il disegnatore Fred Mizen a realizzare il personaggio che diventò protagonista delle campagne campagne di advertisng Coca-Cola. Prima di allora, infatti, Santa Claus era raffigurato come un elfo, piccolo, magro e verde. Fu poi lo storytelling della magia della notte di Natale a permettere all’azienda di entrare di prepotenza nell’immaginario collettivo e modificando quella figura leggendaria grazie ai suoi manifesti pubblicitari. 

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Economia Tecnologia

TikTok, i 10 trend che devi conoscere

Author: Wired

Volenti o nolenti, TikTok è fra noi ed è destinato a restarci. Da app dei balletti a strumento di marketing il passo è più breve di quello che sembri: grazie all’osservazione e all’analisi di milioni di video e di conversazioni, di like e commenti, il social network di ByteDance offre una finestra aperta sugli argomenti di cui parla la Generazione Z e forse ne anticipa la diffusione al pubblico più vasto degli altri social media, della televisione, dei giornali. Così è accaduto nel 2022 nel caso di artisti, mode e ovviamente modi di dire e tormentoni (corsivo docet). Se si considera che la app è passata, in un anno, da 9 a 17 milioni di utenti mensili in Italia è facile immaginare che non si tratta di soli giovanissimi e che la velocità di diffusione delle tendenze che vi emergono è più che comprensibile.

I seguenti trend sono quelli che, nel nostro Paese, risultano diffusi e per lo più incomprensibili a chi non frequenti con assiduità la piattaforma o il mondo dei teenager”, spiega Andrea Boscaro, fondatore e partner della società di formazione e consulenza dedicata al marketing digitale The Vortex. TikTok non è per i boomer, dunque. Tuttavia, non appena si giunge a realizzare il fatto che ogni generazione ha le sue mode, il suo lessico, i suoi comportamenti, si possono trarre delle informazioni utili per sfruttare i trend virali e applicarli alle strategie di marketing.